di Riccardo Magni.
Davide Allocca è un cantautore romano nato nel 1994, quando la stagione dei grandi cantautori italiani era già al tramonto e la nuova fase era ancora molto lontana. Cresce così con riferimenti diversi e variegati, suona la chitarra, si approccia al metal ma poi torna a seguire un’attitudine più mansueta, soprattutto, riempie la sua vita con la letteratura.
Sarà tra i partecipanti alla prima serata del contest di It’s Up 2U a Largo Venue, che in questa seconda stagione vedrà tra gli artisti in concorso, di volta in volta, una proposta proveniente dalle votazioni di Indieffusione, la nuova stazione radio nata dalla collaborazione di Noise Symphony Music con Radio l’Olgiata. E Davide è proprio il primo vincitore di queste votazioni. Si presenta quindi al contest sul palco del Largo Venue come un outsider che si è conquistato gareggiando, la possibilità di gareggiare in un livello superiore. E per un’indole affatto competitiva come la sua, la base di partenza è già insolita. Non possiamo quindi che partire da questo, per conoscerlo meglio.
Ti sei guadagnato sul campo l’occasione di partecipare e prenderai così parte ad un altro contest. Ma la musica resta una festa anche nella competizione?
Ciao amici! Prima di tutto grazie per lo spazio dedicato al mio piccolo mondo. Si, arrivo dalle votazioni di Indieffusione, contest che ho scoperto a tre giorni dalla scadenza grazie ad uno scambio di battute con un altro partecipante. Ho preso parte alla disputa senza troppe aspettative, visto il ritardo, ma ciò che è accaduto mi ha lasciato di stucco e per questo mando un abbraccio a Bontempi, l’artista che mi ha informato. Dopo una buona dose di spam mi sono ritrovato sommerso dalle notifiche e mentre gli occhi mi cadevano in bocca, la sera stessa ero al primo posto. Un duello all’ultimo voto, qualche chilo in meno, il distacco e la vittoria che mi fa quasi strozzare con un panino. Poi ricordo che al pensiero di suonare per la prima volta nella capitale mi sono messo a ridere, ma era da tempo che ne avevo voglia. Non amo la competizione, intesa come uno stato mentale competitivo. Amo gli spiriti liberi che manifestano ciò che sono, quindi… che vincano i brividi. Sapersi emozionare ed emozionare al giorno d’oggi è una vittoria.
Hai avuto un passato rock. L’arrivo ad un cantautorato dalle sonorità più distese, è un passaggio quanto scelto consapevolmente e quanto invece, un’evoluzione naturale?
Ogni volta che ripenso al mio passato musicale sorrido…è stato tanti ricordi fa.
A sedici anni ricevo la mia prima e ultima chitarra elettrica. Suonavo da qualche anno la classica come fosse un’acustica e ricordo la prima volta che ho provato un bending come quello in cui dai il tuo primo bacio: strano, bello, forse anche brutto, ma comunque lo rifaresti. Da lì ci siamo fidanzati per un paio d’anni e ho avuto le prime esperienze da palco con un gruppo rock/metal. Il sogno di ogni capello lungo era vedere la gente prendersi a spinte durante il live, io invece avevo paura di essere travolto e giurai che se avessi avuto occasione sarei stato sempre sopra al palco, non sotto.
Il gruppo si scioglie e la promessa si infrange per sette anni, quindi torno in cameretta e vado in letargo.
Il mio animo da cantautore prende forma negli anni, è separato dalla fase adolescenziale, che mi lascia solo una padronanza discreta dello strumento musicale. Tutto ciò che mi porta ad essere il Davide di oggi, viene dall’uso della scrittura.
Nella tua vita c’è un grosso spazio dedicato alla scrittura ed alla letteratura. Come si coniugano con la musica e più nello specifico con il cantautorato, in un contesto generale che pullula di musica che sembra sempre più leggera? I cantautori si possono considerare tutti indistintamente “scrittori”?
In quegli anni senza suonare mi sono innamorato, ho iniziato a comprendere determinati sentimenti, a sentire il bisogno di non perderli e nulla, nulla reggeva il confronto con l’inchiostro. Foto e disegni parlavano in silenzio e no, per quanto mi piacesse osservare, avevo bisogno di altro.
Ho studiato e studio tutt’ora alla facoltà di Lettere e Filosofia di RomaTre e questo mi ha aiutato a filtrare tantissime realtà letterarie attraverso i miei vissuti. Più mi perdevo nelle parole, più ciò che leggevo divenivo io e allora si, l’avere qualcosa in comune con ogni autore, mi ha spinto a credere che la connessione non fosse nei nostri vissuti, bensì nella modalità con la quale sentivamo il bisogno di parlarne. Successivamente ho ricordato di quando da piccolo mi chiudevo in bagno e scrivevo storie seduto a terra, un segnale così vivo, ma morto e resuscitato solo dopo quattordici anni.
L’accoppiata musica e parole è stata il risultato di una battaglia mentale durata anni, ma se devo sfogarmi prima prendo la penna, poi lo strumento. Non so se l’importanza che affido ai testi sia legata all’amore per la letteratura o a una mia visione della musica nella quale la scrittura sia predominante, ma credo comunque che ognuno debba essere libero di esprimersi e se al pubblico piace, va bene. Per rispondere all’ultima domanda, “scrittore” è colui che vive di sole parole e credo che se vendessero in libreria una raccolta di testi di brani odierni da incassi record, nessuno lo comprerebbe. Qualcuno andrebbe ad un concerto a sentire dei brani letti al microfono?
Meglio autori, altrimenti ci chiameremmo canta-scrittori.
Al di là della grande rinascita degli ultimi anni, l’Italia è da sempre una patria di cantautori. Ci sono secondo te figure che sono, o sono state, più importanti di altre, per questioni oggettive o anche solo personali? E qualcuno di questi che magari, guardi o hai guardato in passato come un esempio o un’ispirazione?
Sono cresciuto in una famiglia in cui si passava dal gridare “Viva, viva l’Inghilterra” insieme a Claudio Baglioni al venderla un secondo dopo con i Genesis per un pound; dal distruggere muri in compagnia dei Pink Floyd a trovarsi chiusi in un barattolo schiena a schiena con Renato Zero.
Ho assaporato varie sfumature, ho imparato a concentrarmi anche sui suoni, seppure il mio giudizio su un brano tenda a definirsi sempre partendo da ciò che mi trasmette il testo. Reputo ad esempio la scrittura del Baglioni maturo una delle più poetiche del panorama italiano passato, subito dopo Fabrizio de Andrè.
Vasco Brondi di “Le luci della centrale elettrica”, tra l’altro protagonista della mia tesi di Laurea, assieme a Francesco Bianconi dei Baustelle e Alberto Ferrari dei Verdena sono i miei riferimenti principali per quanto riguarda la scena più contemporanea, in questo caso molto importanti sia a livello testuale che musicale, sebbene ancora non si direbbe.
In un “mondo dagli angoli ruvidi”, competitivo e frenetico, quale sarebbe l’ultima sfida per cuori tossici di cui canti? Le canzoni sono ancora un baluardo valido per l’espressione dei sentimenti e delle emozioni?
Apprezzo molto questa domanda e sebbene quella frase sia legata ad un contesto intimo, in quanto il brano parla di un momento di crisi in una coppia, c’è una relazione col mondo esterno. Il tema portante è il sentirsi senza respiro tra la nostalgia di ieri, l’incertezza di oggi e la speranza del domani, una condizione eterna che nel nostro tempo ha assunto proporzioni sempre più ampie. Già dal primo verso “Io ti conosco, da quando non c’era l’iphone” è racchiuso il distacco da un passato recente, ma apparentemente lontanissimo, perché oggi il mondo corre troppo senza sapere dove andare, non si guarda mai alle spalle e non si ferma più a pensare. E’ senza dubbio un momento di crisi e “l’ultima sfida tra cuori tossici” è quella di sapersi guardare negli occhi senza distrarsi se si sente il suono di una notifica sul cellulare. Un istante può essere eterno se vissuto a pieno. Si, Credo che questa sia la guerra da vincere per disintossicarsi il cuore.
Il compito dell’artista è quello di percepire lo sfuggevole e farlo conoscere agli altri e finché qualcuno continuerà a non accontentarsi di come viene presentato il mondo e avrà voglia di andare oltre, ci sarà sempre spazio per i sentimenti nelle canzoni, spero solo non scompaia il pubblico capace di apprezzarli.
Quelle due, tre espressioni romanesche inserite nel testo di “Il titolo è il tuo nome” hanno un motivo o un significato particolare?
“Il titolo è il tuo nome” e ognuno può metterci chi vuole. Si, si capisce. Ciò che non si capisce è perché uno debba arrivare a credere a cose inesistenti. La canzone descrive un ragazzo, che potrebbe anche essere una ragazza. Spesso si alza e non parla e il non parlare lo porta ad impazzire. Non riesce a dichiararsi con la persona amata, ma nella sua testa “sono tutti invitati al loro matrimonio” e questo lo inganna al punto da creare falsi ricordi. Nella parte finale del brano, per l’appunto quella con la componente romanesca, riaffiora la memoria di un bacio che “gli prestava un respiro e lo faceva sentì vivo”, ma ovviamente nulla di tutto ciò è mai accaduto. Quando uno è in compagnia di sé stesso non dà retta alle formalità linguistiche, parla ciò che sente, e ritengo essere, le forme dialettali, la massima espressione linguistica della naturalezza d’animo. Negli ultimi istanti della canzone, il nostro visionario ripete varie volte di ricordare quel bacio, ma se fate attenzione potete ascoltare “un sorriso” prima dell’ultima. In quel movimento delle labbra è racchiusa l’ultima consapevolezza della realtà. Quella che bisogna sempre ascoltare per evitare che sia troppo tardi. E se per ascoltare è necessario il silenzio, allora ognuno si parli in silenzio, nel proprio dialetto.
Hai due singoli fuori, stai lavorando ad un disco? Un EP? Insomma, cosa c’è in cantiere?
“Io ti conosco, anche se a volte non ti capisco e scusami se preferisco: caffè, fumare, scrivere un disco…”
Avendo smesso di fumare e bere caffè mi è rimasto solo il disco, quindi si, c’è qualcosa in cantiere, ma assumo solo operai che si alzano quando pare a loro. Devo dire che nonostante questa libertà, almeno tre giorni a settimana timbrano il cartellino e da riposati sono più produttivi. I due singoli che ad oggi sono usciti non sono però l’anticipazione di un progetto definito. Sono stati più una valvola di sfogo per uscire allo scoperto.
Dal momento che scrivo più di quanto suono, mi sono ritrovato ad avere molti testi pronti. Quando finisco di lavorare ad un brano cerco di capire quale vorrei fosse la prossima emozione e scontrandomi tra sorrisi, lacrime e cosmo ne scelgo una. Nel ruolo di ascoltatore, metto un disco, premo play e mi aspetto che ci sia un filo conduttore nel sound e nello stile tra le tracce; nei panni di autore voglio invece sentirmi più libero, approcciandomi ad ogni brano come fosse un disco, per poi mescolare le diversità in un insieme di me stessi, se guardi a fondo, non poi tanto differenti.