Tutte le canzoni, o perlomeno quelle di valore, hanno un loro momento ideale, un istante nella nostra vita di cui volenti o nolenti saranno sottofondo. Non importa se non siano nate con quello scopo, prima o poi se si concede loro l’occasione quel momento arriva, seppur diverso per ognuno. Il momento di cui Daev è stato colonna sonora è avvenuto più o meno mezzora fa, mentre tornavo a casa in macchina. Pioggia scrosciante, strade di campagna, le ruote che slittano sulle pozze d’acqua, l’auto così facendo frena da sola, poi riprende velocità. I fari delle altre auto appaiono alle mie spalle e si affacciano prepotentemente, poi mi superano e scompaiono nel buio. Ma non importa, perché io non ho fretta. Ora lasciate stare che sto rigorosamente a folle per risparmiare qualche goccia di benzina, ma comunque non ne ho, perché non voglio che tutto questo finisca.
Termina il ricordo e bisogna tornare al presente e a questa recensione, ma dopo sensazioni così intime come posso chiedere a me stesso di descrivere meccanicamente quell’arpeggio di chitarra o quel vibrato di violoncello, quando queste cose si descrivono così bene da sole, così genuinamente impresse sul disco. E allora cerco di proseguire come ho iniziato, aprendo di nuovo il mio cuore e lasciandovi immischiare nei fattacci miei. La voce di Daev è la carezza di una madre, mentre vi sussurra esattamente ciò di cui avete bisogno per stare bene. E quando vi sgrida sapete che lo fa per voi. È dolce come l’ultimo alito di vento estivo, prima che faccia buio. Ed è potente come le folate di gennaio che scuotono le finestre e non vi fanno sentire protetti nemmeno in casa. Volete qualche dato tecnico? Daev canta in inglese, ma è italianissimo. L’opening “Mirror” è un capolavoro di composizione e arrangiamento che potreste benissimo trovare nel disco di qualche autore internazionale molto blasonato; il che non significa che sia banale ma che il nostro Daev più che apprendere ha di che insegnare. La quinta, “Shine”, è la prossima canzone che vorrebbe comporre Elisa, se ne fosse ancora capace. La sesta, come si evince dal fatto che non appare in scaletta, è una traccia fantasma tutta da scoprire, ed è la cover di “Somebody that I used to know”; neanche a farlo apposta meglio dell’originale. Se sono orgoglioso di essere italiano? Forse no. Ma sono orgoglioso che Daev lo sia.
Matteo Rotondi (Discover)