– di Naomi Roccamo –
Sono passati due anni dall’ultima volta che abbiamo sentito parlare di Mudimbi, due anni da Il Mago che partecipava a Sanremo Giovani e due anni da Michel, il fortunato album omonimo.
Il Mudimbi che intervisto oggi è indubbiamente diverso, come subito mi conferma: è diverso nel look, diverso nello stile, diverso nelle consapevolezze, quelle racchiuse in Miguel, il disco in uscita il 6 novembre per Artist First.
Ciao Mudimbi, come stai? Oggi (6 novembre) è una data particolare, in alcune regioni inizia il secondo lockdown e tu pubblichi il nuovo disco, what a coincidence.
Ciao! Bene, rilassato, considerando che io vivo proprio a Milano. Sì, me la sono scelta proprio bene, ma alla fine la vedo più come una cosa positiva in un momento in cui stiamo nell’occhio del ciclone.
Ovviamente te lo avranno già chiesto in tanti, però te lo chiedo pure io: come sono andati questi due anni sabbatici? Dove si va quando si perde l’ispirazione per qualcosa di nuovo, come si fa?
Anzitutto mi sono trasferito a Milano, che non è proprio il massimo per ottenere tranquillità come sai, però volevo spostarmi dalla mia comfort zone, casa mia a San Benedetto del Tronto. Ti dico la verità, io ho passato praticamente due anni in lockdown, sono uscito poco, sono stato molto da solo, sia a pensare, sia a provare a non pensare troppo, per riflettere su quello che era successo e non era successo, su chi sono e su chi voglio diventare. Ho interiorizzato.
Il tuo cambiamento è quasi impercettibile nella somiglianza dei nomi degli ultimi album, Michel e Miguel, ma diventa evidente dopo il primo ascolto di Miguel. Questo disco segna l’inizio della collaborazione con Artist First e l’uscita dalla Warner, con cui in passato collaboravi. Credi che l’unione con un’etichetta indipendente abbia in qualche modo liberato la tua immagine? Ti sei sentito più rappresentato da una realtà diversa?
Guarda, sicuramente la libertà non è mai mancata da quando ho presentato l’album ad Artist First, che lo ha accettato ed apprezzato cosi com’era. Per un artista è molto bello avere totale carta bianca, con tutti i rischi che ne conseguono e le soddisfazioni.
Miguel è stato realizzato solo con l’ausilio della voce, non suonando tu alcuno strumento. Hai reso una “mancanza” una peculiarità, qualcosa di unico ed innovativo…
Tutto è nato dall’arte di arrangiarsi. Avevo ed ho attualmente una scheda audio e un pc e volevo riuscire a fare tutto, perché ero curioso di vedere la mia idea, nuda e cruda, così come la avevo in testa, volevo vedere come sarebbe arrivata alle orecchie degli altri. Lavorare in partenza con un produttore avrebbe significato modificare la mia idea, io volevo essere il più immediato e veloce possibile e prendermi tutta la responsabilità di quello che la gente avrebbe poi ascoltato.
Tu comunque collabori con il duo di produttori Fire Flowerz…
Esatto. Una volta buttati giù tutti gli scheletri, con loro ci siamo messi a lavorare per strutturare meglio il tutto. Ma il provino originale è in effetti l’album. Tutti i suoni poi ricalcati, come le batterie che ovviamente non riuscivo a fare a voce, tutto ciò che ho registrato, è tutto nell’album.
Sei riuscito a inserire tutto!
Assolutamente sì e non me lo aspettavo nemmeno io! Pensavo che in fase successiva qualcosa non l’avremmo tenuta, invece loro mi hanno detto da subito che avremmo tenuto tutto, al massimo modificandolo un po’. Io in primis son rimasto sorpreso!
Tu hai partecipato a Sanremo nel 2018. Sappiamo benissimo che in due anni musicalmente è cambiato molto, è diventato più facile fare musica, o almeno crearla. Pensi che partecipare nel 2020 a Sanremo sarebbe stato diverso, meno utile? Oppure pensi che in ogni caso la visibilità televisiva sia fondamentale per l’inizio di una carriera artistica, che sia Sanremo o un reality show?
Mi avevano proposto Pechino Express, ma ho rifiutato bellamente. Io ho voluto fare così, ma non penso che la tv sia una strada sbagliata. È una strada come un’altra e ovviamente la risonanza può essere maggiore, ma può anche essere controproducente, esporsi molto e velocemente è un rischio. Anche internet è un rischio, sta all’artista sapersi giocare le possibilità che questi mezzi offrono.
Sono indubbiamente dei tempi frenetici in cui non ci danno e non ci diamo tregua. Produciamo e pretendiamo sempre più, con la costante paura di perderci pezzi. Hai dichiarato di essere molto distante da queste dinamiche, di essere selettivo anche sul tipo di musica da ascoltare fra queste continue produzioni. Ne parli in una traccia del nuovo disco, Ballo.
Sì, è un argomento che ho affrontato anche perché rispecchia le mille elucubrazioni dei miei anni sabbatici. Ho passato più o meno otto mesi senza ascoltare musica perché ero saturo. L’unica cosa che musicalmente mi faceva compagnia in quel periodo era DiCaprio 2 di JID e mi ha dato molte soddisfazioni. Ero nauseato dalla valanga di roba prodotta, come dici tu, oggi nuova e domani vecchia, mi sentivo un cane che si mordeva la coda, che mangiava qualcosa con sempre lo stesso sapore, in gran parte. Siamo troppo frenetici in generale, c’è più bisogno di respirare ed è assurdo che l’arte, che ha bisogno di ispirazione, si pieghi a certe logiche di mercato. Oggi vogliamo tutti essere artisti, devi produrre perché se ti fermi ti passano sopra e sono convinto sia il male. Io ho tirato il freno a mano, non perché potessi permetterlo, ma perché non potevo farne a meno.
A proposito di Ballo, ho visto il videoclip e l’ho apprezzato molto. Lo hai diretto tu, insieme alla tua casa di produzione BANANA. Oltre alla necessità soggettiva che un’artista può avere di scegliere in prima persona come esporsi visivamente, cosa ti ha spinto a curare anche questo aspetto della tua arte? Sei appassionato di cinema?
Mi sono sempre dilettato nella pre produzione e produzione dei miei video, le idee sono sempre state mie, gli storyboard idem. Ho diretto anche in passato, con amici che mi hanno lasciato molta carta bianca. Mi stimola creativamente e mi sono detto: “Perché no?” Ne ero in grado e ho deciso di girare anche per altri, fondando BANANA.
Poi non è minimamente scontato che sul piano visivo si riesca ad essere all’altezza del brano, anche se dietro c’è la stessa persona. Tra l’altro, senza fare spoiler, all’inizio del videoclip di Ballo si fa riferimento alla figura femminile in un modo che ribalta le solite dinamiche (ormai obsolete) dei video rap in cui la donna viene resa oggetto. Io sono femminista e adoro il rap, devo cercare ogni giorno un compromesso fra il linguaggio che viene usato, e che anche tu utilizzi, e quello che mi piace ascoltare. Finalmente posso chiedere a un rapper perché non si riesce a rinunciare a un certo tipo di dinamiche e perché, come alcuni tuoi colleghi hanno affermato, è anche sbagliato farlo.
Secondo me non c’è bisogno, per chi scrive canzoni piuttosto che per chi gira film, di educare o veicolare un messaggio specifico, a volte un prodotto è solo il prodotto che è. Il motivo per cui non si fa a meno di certe parole è che semplicemente esistono nel nostro quotidiano e se quello che fai è raccontare il momento storico in cui vivi non ti puoi, ovviamente, esimere dal descrivere certe situazioni o certe immagini. Poi c’è una gran differenza fra il parlarne e il far propaganda, supportare certe ideologie. Spesso viene frainteso il fine ultimo dell’arte, cioè l’intrattenimento e la rappresentazione delle cose, però capisco anche che così si continua a sottolineare una determinata situazione, si gira il coltello nella piaga e la gente si arrabbia.
Pensi che l’utilizzo permanente di questo linguaggio aiuti ad esorcizzare certe problematiche?
Penso che questo dipenda molto da chi ascolta. Una stessa rima di un mio brano per qualcuno è ironica ed esorcizza, per altri è offensiva. Dipende anche dal background culturale. Io stesso mi sono ritrovato recentemente esposto da uno stand up comedian che mi ha sempre fratto ridere e che però a una certa ha iniziato a triggerarmi. Non è che di punto in bianco è diventato uno stronzo, è solo che il mio vissuto è cambiato, così come è cambiato il mio modo di guardare quello spettacolo, però per me è anche giusto che un argomento venga portato a galla in più contesti, se se ne parla la cosa non passa inosservata.
Mi sono documentata e so che ti hanno già chiesto un’opinione a riguardo, ma te l’avrei chiesta a prescindere: dissing Margherita Vicario-Emis Killa.
(Ride, ndr) Sono venuto a conoscenza di questo episodio in ritardo e sono andato anche io a cercare informazioni. Lì secondo me il problema non stava né nella risposta, lecita, della Vicario, né nella canzone, che a me è piaciuta tantissimo..
Anche a me! Mi sono sentita una cattiva femminista…
Il vero problema è stata la reazione della fanbase di Emis Killa, perché poì li si crea quella situazione spiacevole in cui l’artista non si espone in difesa della persona che viene attaccata, non si prende le responsabilità, ma è un altro discorso. Però dal punto di vista artistico e sulla reazione della Vicario non me la sento di dissentire. Mi sembra tutto lecito.
Sempre in riferimento agli accostamenti ti chiedo cosa ne pensi dei paragoni, forse un po’ superficiali e scontati, fra te e Ghali e fra te e Mahmood.
A parte la tintarella io non vedo proprio somiglianze… Forse con Mahmood, ma solo il nome, un po’. E poi lui sa cantare, a differenza mia (ride, ndr). Con Ghali proprio non vedo punti in comune. Comunque li ho ascoltati entrambi e mi sono piaciuti entrambi, li ho anche conosciuti di persona e mi sembrano delle persone squisite, quindi accetto il paragone dal quel punto di vista, ma artisticamente proprio no!
E le tue origini congolesi hanno influenzato, in qualche modo, il ritmo di questo nuovo disco? Culturalmente ti porti appresso questa tua identità?
Assolutamente no, perché non ho nulla a che fare con le mie origini. Sono stato in Africa due volte, la prima a tre anni e poi di recente, ma non ho assorbito nulla, nonostante il cambio repentino di scenario. Mi sentivo un italiano in Africa, un po’ avvantaggiato dal colore della pelle che ho, e quindi visto con meno diffidenza rispetto a un bianco, ma tutto qui. Anzi, mi sono documentato di recente sulla cultura musicale africana scoprendo che il Congo è attualmente un esempio valido per tutta l’Africa, un maestro, però non ho ancora studiato abbastanza da creare qualcosa.
Pezzi come El Matador (videoclip incluso) e Lalala-Lalala-Lalalala-Lalala possiamo definirli onomatopeici, se sei d’accordo; molto fluidi, liberi. Sembra che tu abbia voluto creare un album necessario e personale per te ma, al tempo stesso, leggerissimo per tutti gli altri!
Esattamente, non mi sono proprio fatto problemi su come dovesse suonare un brano. Leggero è ok. Ho cercato nell’economia dell’album di bilanciare contenuti e sonorità, ma in totale libertà e per arrivare a questo risultato finale.
Benissimo, come tu sei riuscito a inserire nel disco tutto quel che volevi anche io credo di averti chiesto tutto quello che volevo chiederti! Ti ringrazio e ti auguro buona fortuna con Miguel! A presto!
Grazie a te! Ciao!