– di Martina Rossato –
Cucina Sonora è la creazione in musica del mondo di Pietro Spinelli. Il progetto prende forma nel 2014 e fa il suo esordio l’anno successivo con l’EP omonimo. La musica di Cucina Sonora è da sempre fatta di loop, ripetizioni di sequenze evocative e spesso oniriche. Con SMILE, l’ultima uscita, l’artista si allontana dalle sonorità un po’ cupe dei lavori precedenti in un EP nato per far divertire.
Pietro va contro qualsiasi preconcetto, fregandosene delle mode e facendo musica in totale libertà. Questo lavoro nasce da una sfida: per una volta, niente arrangiamenti complicati, poche note e tanto divertimento!
Comincerei con Basta poco, il singolo che ha anticipato l’EP. Il video ricorda troppo quello di Aulos di Vladimir Cauchemar, come hai scritto anche nel comunicato stampa.
Grande! Sì, l’ispirazione del video è partita da lì. L’idea è di N.A.I.P., è stato lui a tirare fuori questo video che era in un angolo remoto della mia memoria. Rivedendolo dopo anni ho pensato fosse un capolavoro e volevo una roba proprio come quella, un po’ folle e scema. Ci siamo divertiti come matti a farlo, anche se è stato un tour de force perché abbiamo fatto le riprese in un giorno, spostandoci per otto location (tutte milanesi).
Bellissimo! Tu tra l’altro hai un accento che non è per niente milanese, di dove sei?
E ci sto provando a pronunciare la “c”! Nonostante sia a Milano da quasi sei anni si sente ancora pesantemente sono della provincia di Pisa, Volterra [ride, nda].
Tornando al singolo, cosa c’è di tuo e cosa di N.A.I.P.?
Il tutto è nato in maniera molto buffa. Una sera ero con Go Dugong, un mio amico e produttore bravissimo. L’ho sempre stimato un sacco musicalmente, poi ho avuto la fortuna di diventarci amico. Lo vedo come un guru e spesso gli ho mandato i miei provini e le demo. Lui è uno fortissimo sulla roba groove, molto ritmata, e ha una cura del suono incredibile. La cosa che mi ha sempre criticato è che tendo a fare arrangiamenti mega densi, molto barocchi e un po’ stucchevoli. Chiacchierando mi ha sfidato a fare qualcosa di mono-nota, o che comunque girasse sempre sulle stesse due note. A mo’ di sfida mi sono messo sul serio a fare questa cosa.
E da lì come hai lavorato?
Il tutto è partito dalla linea di basso. “Linea” è un parolone: sono due note e basta, attorno alle quali ho ricamato tutto il resto. Con mia grande sorpresa, amici, parenti e colleghi a cui lo ho fatto sentire mi hanno detto che era il pezzo più inquadrato di tutti. Il problema era che mi pareva distante anni luce da tutti gli altri brani: mi piaceva, ma sentivo che mancava qualcosa. Avrei aggiunto una linea melodica, un arrangiamento o qualcosa del genere, ma ero partito proprio dall’idea di evitare i miei soliti arrangiamenti.
Ragionando mi è venuto in mente N.A.I.P. e il pezzo su David Guetta [David chi?, nda], prodotto da Stabber, che è un pezzo elettronico in cassa dritta. Ho pensato che magari avrebbe sposato la causa, gli ho mandato un messaggio e fatto sentire il pezzo. Si è preso bene dal momento zero! Dal punto di vista musicale abbiamo rivisto la struttura del pezzo per renderla strofa-ritornello.
La cosa buffa è stata che lavorando mi ha fatto notare che mancava un “suonino”, un qualcosa che potesse attirare l’orecchio. A quel punto l’ho guardato e ho fischiettato. Lui è rimasto rapito dal mio fischio, lo abbiamo registrato così come veniva e poi abbiamo scritto il testo girando attorno a quella roba lì. È stato il gancio perché quando è uscito il pezzo mi hanno detto tutti che quel fischio è una cosa semplice e scema, ma è una ganzata! Mi gaso quando parlo di Basta poco, ma come se fosse il pezzo di un altro, perché non mi capacito di come sia uscito da me.
Alla fine è bastato poco, dai.
Sì, esatto esatto. Sul testo ho lasciato carta bianca a N.A.I.P. perché io e le parole non siamo mai andati d’accordo. Ne abbiamo parlato, però. Io pensavo ci volesse un claim ripetitivo, a cui dare una risposta e da lì abbiamo pensato al “basta poco”. Quando ha buttato giù una bozza di testo e me l’ha letta non mi sono subito reso conto che alla fine è sì un pezzo leggero e divertente, ma se lo ascolti bene è un brano sulla depressione. Nella canzone si dice che basta poco per godersi la vita ma basta anche poco per non riuscire a fare niente: ci sono quelle volte in cui non riesci a far nulla. Non ce n’è, ci provi ma non riesci a uscire da quello stato mentale, quello che hai attorno ti fa sentire un coglione proprio perché non ce la fai, e basta poco a farti sentire così. Per quanto la percezione più immediata di quel testo lasci pensare che sia una cosa nonsense, riascoltandolo in questa chiave diventa quasi fantozziano: è come l’esperimento malriuscito di Fantozzi, una storia tragicomica in cui il popolo ha poi visto solo la comicità.
Questo aspetto però non è così celato, secondo me, e non è dovuto solo al testo: anche i tuoi altri pezzi senza parole esprimono qualcosa di forte. Qual è la difficoltà nel mettere in musica cose tanto profonde?
In generale, quando scrivo ci sono volte in cui parto a scrivere, scrivo e punto. Se devo fare un lavoro per qualcun altro è diverso: metto in pratica la grammatica e la teoria musicale, cercando di tirare fuori esattamente quello che mi hanno chiesto, ma se scrivo per me è solo riascoltandomi che mi rendo conto di cosa volessi dire. Questo perché prima scrivo e in un secondo momento faccio una sorta di autoanalisi da cui viene fuori come ero in quel momento. A volte escono robe di una densità incredibile e io stesso poi penso: «Che palle!», ma evidentemente ero in quello stato lì quando ho composto quel brano.
Nei miei pezzi non ci sono parole, non c’è niente di esplicito, è tutto molto aleatorio e discutibile. La figata è quando gli altri mi dicono cosa sentono nella mia musica, soprattutto quando mi rendo conto che la gente ha avuto lo stesso immaginario, perché vuol dire che sono andato a toccare proprio quelle note lì. In quel momento ti rendi conto che la musica è in gran parte un linguaggio universale: se prendi un brano strumentale di classica, jazz o del genere che vuoi, è difficile che davanti a un pezzo commovente una persona pianga e un’altra rida. È più facile che una pianga di più e uno di meno.
Certo, si possono raccontare molte cose anche senza parole.
Una roba che mi è sempre piaciuta (motivo per cui poi cado nelle sovrastrutture degli arrangiamenti) è che puoi stratificare una storia anche quando non usi le parole: puoi usare più linee melodiche per raccontare non solo la storia, ma anche il paesaggio attorno, il clima, l’ora del giorno, in che nazione ti trovi. Non è solo questione di linea melodica o di progressione armonica, ma sono i suoni che utilizzi, la velocità del tempo, quanto è cattiva e quanto morbida. Se prendi le lettere nero su bianco di un libro non ci trovi solo la storia ma molte più stratificazioni. L’importante è dare il giusto peso a ciascun elemento: aggiungere è semplice, sottrarre comincia ad essere un problema. Proprio come in cucina: la cucina mediterranea si basa su pochi ingredienti ma incredibili, altre cucine hanno tante spezie ma se poi assaggi il singolo ingrediente magari non è così saporito. Sono due modalità valide di fare una cosa, dipende dalla necessità, dal contesto, da cosa uno vuole ottenere.
Il concetto è molto chiaro. Nei tuoi brani entri spesso in loop non troppo leggeri, invece in questo EP mi sembra che tu sia un pochino uscito da questo aspetto cupo.
Sì, in un certo senso quasi a – passami il termine – perculare il tutto. Mi è sempre piaciuta l’idea romantica di elaborare storie complesse, lunghe e dilatate. Ad esempio se ascolti Onironauta e Onironauta, pt. 2, quei due brani per me sono fuori di testa, a livello narrativo, sono il racconto di una cosa che mi è successa più volte, i sogni lucidi, e ciò che mi interessava era raccontare quel tipo di esperienza. Oggi è difficile trovare qualcuno di disposto ad ascoltare brani così lunghi con una certa dedizione, non mentre fa altre cose. È comprensibile, non ne faccio una colpa a nessuno, semplicemente funziona così. Le mie soddisfazioni però me le sono tolte: quando suono dal vivo non te la scansi, cioè se sei venuto a sentirmi ti tocca per forza ascoltarti il pezzo dall’inizio alla fine [ride, nda]. Poi magari la gente non va a riascoltarmi su Spotify, ma manco io mi riascolto i miei pezzi su Spotify: è come leggere un libro pesante che, una volta finito, non tocchi più.
A ‘sto giro, per uscire da questo schema anche mentale, ho pensato di fare qualcosa che se me lo facessero ascoltare quattro volte di fila, lo ascolterei volentieri quattro volte di fila perché mi gasa e mi diverte. Ci deve essere una parte un po’ più up, una un po’ più down, però deve essere figo quel momento lì, senza necessariamente un inizio e una fine: un momento.
Tutti i brani dell’EP girano sempre attorno agli stessi quattro accordi, non c’è uno sviluppo nella struttura musicale del brano, è anche un po’ una perculata nel senso di dire: «Stavolta faccio una roba mega easy». Anche a livello visivo mi sono chiesto quale potesse essere una cosa super immediata, che tutti conoscono ed usano e cosa c’è di più easy di uno smile? Ci giochiamo quattrocento cause perché stiamo usando questo simbolo? Ma che ci importa, se ci chiamano in tribunale tanto meglio, vuol dire che ha funzionato.
E a proposito dello smile: l’omino giallo, raccontami chi è!
L’idea è venuta insieme a Cosimo “Cionsi” Grandoli, che è il grafico ed è la mia spalla destra in tutte le follie che partorisco. Quado avevo il disco pronto, proprio perché non c’era un concept dietro, non c’era una narrazione, non c’era un mood, non c’erano testi se non quello di Basta poco, mi sono chiesto perché avrei dovuto inventarmi una storia e dare un filo logico narrativo quando chiaramente non c’è. Raga, non c’è una narrazione: è musica. Nemmeno i più grandi compositori davano un titolo alle loro opere; io ho fatto i pezzi e vorrei che chi li ascolta ci vedesse quello che vuole.
Poi, dal punto di vista grafico, ci serviva una copertina. È una cosa sbagliatissima da dire ma fa niente, te la dico, tanto ormai mi sto buttando via [ride, nda]. In passato partivo da un concept e sviluppavo da lì le canzoni, ma qui il concept non c’era, quindi invece ho fatto il percorso contrario: ho pensato di trovare una cosa figa e costruirci qualcosa attorno.
Siccome ho sempre avuto il pallino per il guerrilla marketing e le cose catchy, mi son messo a cercare oggetti e gadget che facessero al caso mio (ovviamente in tutto ciò non avevo neanche un’idea del titolo del disco). Mi sono imbattuto in questi omini gialli a una cifra relativamente bassa, lì mi è partita la nave e ho pensato: «T’immagini come sarebbe comprarne una valanga e portarli in giro ovunque per Milano?». Non c’entrava nulla col disco, allora ho deciso di chiamarlo SMILE e bella lì, basta così [ride, nda].
Fantastico! L’omino giallo è nato da sé.
L’unica differenza con tutti gli altri artisti è che io te lo dico, molti altri costruiscono mega storie sul nulla. So come si scrivono le canzoni, soprattutto nel mercato musicale vero, quello dove girano i soldi. Si ricamano storie, a volte sopra al nulla. Allora, non ci stiamo a prendere per il culo, diciamo le cose come stanno: ho fatto un disco perché la gente si diverta quando lo sente, fine [ride, nda]. Mi piace che la gente ci viaggi sopra e tragga le conclusioni che vuole. Una volta mi ricordo di aver fatto un incontro con Brunori, anni fa, a Firenze. Gente del pubblico gli chiedeva chi fosse la donna delfino che cita in Fra milioni di stelle. Lui disse di aver usato quella parola lì perché tornava bene in metrica ma che dire chi è avrebbe rovinato tutta la magia, quindi è chi tu vuoi che sia. E funziona così: diciamoci le cose come stanno. Qui mi sto sbugiardando da solo, ma perché non mi va di dire cazzate. Quando ho fatto robe che avevano dietro storie e concetti, era davvero così. Notte è stato scritto davvero tutto di notte, ogni pezzo rappresenta davvero quella parte della notte e ogni titolo è coerente con quello che ho suonato. Qui i titoli sono stati dati riascoltando i pezzi quattro mesi dopo e usando la prime parole che mi sono venute in mente. So che è controproducente ma voglio essere fedele alla linea fino in fondo.
Altro che controproducente, magari fossero tutti così sinceri!
Sì ma anche perché ti dico che avendo lavorato con tanti artisti in veste turnista, produttore e co-autore, quando vedo come nascono le cose e come escono le interviste dopo penso: «Ma stai zitto, ma che dici!» [ride, nda]. Poi è chiaro che c’è una tipologia di pubblico che pende dalle labbra di quell’artista e quindi sono disposti a credere a tutto. Io non ho nessuno che mi pende dalle labbra quindi, sai che c’è, a ‘sto giro, mi son proprio detto che non me ne frega, voglio essere valutato per la musica che faccio e non per le stronzate che dico. Non è che poi mi devi sentire in un comizio pubblico, sono un musicista! La prossima volta che vorrò fare un disco con un concept più impegnato, vai tranquilla che quello che dirò coi pezzi e nelle interviste sarà quello che penso e che sento. Non mi è mai andata di creare architetture false dietro a un loop di quattro accordi e davanti a un pezzo dance. Se prendi titoli di artisti che fanno elettronica, o è elettronica veramente di un certo spessore e allora i titoli hanno un senso, ma se prendi la maggior parte della roba dance o tech house il titolo è l’unica parola detta nel pezzo o la prima cosa che avevano vicino quando stavano cercando un titolo.
Una curiosità: visto che fai musica di tutti i tipi, ci sono punti di contatto tra digitale e analogico?
Sì, nel senso che oggettivamente si sono evoluti i mezzi ma la lingua è rimasta quella. È chiaro che è cambiato il modo di comunicare, ma non solo in musica. Un tempo scrivevi una lettera e ti rispondevano dopo tre mesi, oggi magari scrivi “ti amo” in DM su Instagram. Se il peso di quello che dici sia lo stesso, non lo so. Però sicuramente abbiamo molti più mezzi e possibilità per esprimere ancora più cose. Il problema è che molto spesso, secondo me, questa potenzialità viene vista più che per ampliare le possibilità, un modo per accelerare i processi o semplificare i passaggi con la conseguenza che diventa tutto più sterile. Questa è la mia sensazione, poi ovviamente sempre di musica stiamo parlando quindi di melodia, armonia e ritmo. Certo, poi ci sono produzione, scelta dei suoni e tutto il resto, ma mi viene da dire che la produzione c’era già nel Settecento, perché a seconda di come veniva costruito un pianoforte aveva un suono oppure un altro. Chopin suonava su un Playel e Beethoven magari su un altro pianoforte: quello è l’equivalente dell’usare un plugin piuttosto che un altro. Però lo fai per partorire quante più hit possibili o per ampliare le tue possibilità? È questo il problema.
Il rischio è che si appiattisca tutto.
Esatto, per esempio ho sempre utilizzato Ableton con tutti i vari aggiornamenti. Ogni aggiornamento, per fortuna, rende più facile la vita di chi quel software lo utilizza e ci ha studiato. Negli ultimi aggiornamenti però ho notato che hanno inserito delle facilities di robe che dovrebbero essere scontate per uno che fa musica. Ci sono tool per costruire in automatico le scale e gli arpeggi: tutte cose che uno che fa musica dovrebbe già conoscere.
Ho analizzato un po’ questa cosa e il fatto è che prima ci si rivolgeva al mercato degli addetti ai lavori, quindi ci si basava su chi quello strumento lo usa perché ne ha bisogno per lavorare. Ora ci si rivolge anche all’inesperto, fornendo un software progettato in modo che anche un ragazzino che non ha mai studiato musica possa farne uscire qualcosa di sensato. Bellissimo il fatto che tutti possano fare musica, molto meno bello il fatto che tu abbia già tutto lì pronto. È una questione non di sforzo di studio e di ricerca, ma di avere una macchina con tutte le opzioni possibili. Qualsiasi tasto tu schiacci, qualcosa viene fuori. Questa roba qui si sente riflessa nella musica che passa in radio.
Con un ascolto disinvolto, sembra tutta uguale. Ora, dire che è tutta uguale è un discorso da boomer che non voglio mettermi a fare anche perché non è vero, però è vero che trovo pochi brani che mi fanno rizzare le orecchie e sentire una bella differenza rispetto a tutto il resto. Tra Colapesce e Dimartino e altri che magari passano anche per Sanremo, senti una differenza di base. Un conto è saper utilizzare la musica e conoscerla, diverso è sfruttare quello che ingegneri e programmatori creano per far sì che tu possa usare quello strumento. Come con le macchine: un tempo se volevi guidare una macchina da corsa dovevi saperla tenere, oggi le super car possono essere guidate da chiunque. La cosa che stai utilizzando ha una potenza, e ci vorrebbe un pochino più di rispetto e consapevolezza nei confronti dei mezzi che ci sono dati. Preferisco avere cinquanta persone che sentono i miei pezzi e mi guardano nelle palle degli occhi dicendomi che il pezzo è bello vero che avere milioni di stream di non so chi che non so come abbia ascoltato la mia musica.
Discorso assolutamente condivisibile. Ti ringrazio e spero di sentirti presto, ché ti ho già perso settimana scorsa!
Al Biko, sì! È stata una bomba, quando sono sceso dal palco sono andato nel camerino seguito dal videomaker ed ero completamente fuori di me. Ero contento oltremodo e ho dato il 110%, infatti ora sto smaniando per rifarlo. Il live set stavolta è molto “arrogante”, della serie «Mo’ sei qui e mi ascolti per la prossima ora e dieci» [ride, nda]. Presuntuosissima come cosa, suona veramente male, ma ho avuto questa attitude questa volta (al contrario di altri live in passato). Sono arrivato al secondo pezzo che saltavo come una scimmia ed ero già sudato come un mostro: ho pensato di non arrivare alla fine [ride, nda]. Invece poi ci sono riuscito ed è stato stupendo. Speriamo di rifarlo a breve!