– di Lucia Santarelli –
Stiamo ancora festeggiando l’inizio del 2019 per non fare più i conti con l’anno appena trascorso e poi, in fondo, per accantonare il fastidioso periodo di bilanci.
Amici, però mi sembra che di bilance ci sia veramente bisogno per misurare parole, suoni, contesti e circostanze; che vengano calibrate secondo il buon senso e il buon gusto, la consapevolezza, la coscienza e conoscenza delle proprie capacità.
Ci etichettiamo, smettendo di misurare le nostre potenzialità, per scarsa autostima o per troppa stima di noi stessi. Anche per ipocrisia. Questo atteggiamento è un po’ la conseguenza di un periodo, ce lo ripetiamo più volte; invece forse non è così e nel frattempo continuiamo a trovare giustificazioni di tutti i tipi, a vivere di espedienti e di difese.
Probabilmente sentiamo l’esigenza di autodefinirci, delineare il nostro identikit per far capire agli altri, al mondo, “guarda, sono io, sono questo qui”; in pratica, la triste formula facebookiana del “lavoro presso me stesso”. A che pro? Saremmo più attendibili come persone, come professionisti?
La credibilità di un individuo si costruisce con lo studio, con il confronto, con l’esperienza, col mettersi costantemente alla prova; con un equo bilanciamento di modestia e, passatemi il termine, anche un po’ di “cazzimma”. Accetto anche la risposta: “Cara mia, chi ha le giuste doti sarà premiato con il tempo”. (Cazzata, in parte).
Ebbene, questa riflessione nasce da un rapporto causa-effetto molto semplice: leggere per poi chiedersi in che direzione stia viaggiando il giornalismo musicale.
Partiamo da una prima ed elementare definizione di critico musicale (che letta tutto d’un fiato fa un certo effetto): giornalista specializzato nello studio della musicologia, che si esprime attraverso presentazioni, recensioni, reportage, analisi, interpretazione di eventi o prodotti artistici, manifestando la propria opinione approfonditamente, perciò basandosi su una valutazione attenta e scrupolosa, giustificata, in merito ad un determinato argomento.
Si tratta dunque di un mestiere nobile, che vede delle responsabilità alte nei confronti dell’artista e del pubblico di lettori verso cui ci si rivolge; per specializzarsi in questo ambito bisogna ovviamente studiare, ascoltare, avere curiosità, stimoli, immaginazione, saper scrivere ed esprimere chiaramente le proprie idee, affinché possano essere comprese dal pubblico. Anche se apparentemente potrebbe sembrare il contrario, queste precisazioni non sono così banali e scontate nella loro semplicità.
Non ci s’improvvisa medico, senza aver studiato medicina.
Non si progettano case, se non si è architetto; un’abitazione crolla, si sa, senza basi solide e studi accurati sulla struttura.
Né più, né meno, questo discorso vale anche per la critica musicale: avere la supponenza, l’altezzosità, l’arroganza di poter parlare a sproposito sull’arte di un musicista non fa di una persona un critico. In parole spicciole, l’abito non fa il monaco.
La strafottenza non crea il dialogo, ma lo annulla.
Ci si chiede così se la critica musicale stia scomparendo, degenerando o semplicemente evolvendo, cambiando. Una cosa è certa: abbiamo bisogno che si legga e si parli di musica, che si capiscano le nuove tendenze artistiche, che sia vivo il confronto con il passato; ma il tutto, con giusto criterio.
Manifestare il proprio pensiero, giudicando negativo o positivo un prodotto musicale o l’attività di un artista, è sensato, lecito, necessario; bisogna però avere la consapevolezza di ciò che si scrive, motivando le proprie argomentazioni in maniera costruttiva.
La musica è anche condivisione, così come la scrittura. Fare critica musicale vuol dire assumersi grandi responsabilità verso chi legge, un po’ come il professore nei confronti dello studente.
Essere coerenti, esprimere un giudizio in maniera ragionata, anche se non condivisibile, è sempre più raro.
Infatti mentre le riviste specializzate, di settore – come quelle musicali – stanno scomparendo (per essere ottimisti e non dire che sono già scomparse), spopolano quei fenomeni da tastiera che pubblicano contenuti sui social, sui propri blog e nelle webzine musicali, per il semplice gusto di cavalcare l’onda della moda generazionale del momento e seguire la logica del clickbaiting.
Cambiano i tempi e anche gli strumenti per divulgare le proprie riflessioni, quante volte ce lo dicono i nostri vecchi! Il gioco sta nell’essere tanto furbi da poter utilizzare tutto ciò che si ha a disposizione nel migliore dei modi (e anche questo ce lo ripetono in continuazione).
Allora, non siamo più in grado di ascoltare, osservare, ragionare?
Basta anche solo una parola, quella giusta, a far percepire agli altri quanta serietà e studio ci sono dietro al nostro lavoro; o carta e penna, oppure una tastiera.
Ma vogliamo veramente essere egocentrici e narcisisti, da pensare che basti dire due parole su un disco, l’uso smodato dei social e un atteggiamento da popstar per poterci definire dei critici?
Tanti saranno i motivi per cui si dice “non metter bocca, dove non ti tocca”!
Dietro ad una recensione deve esserci molto di più di una grande varietà di sinonimi, di aggettivi fantasmagorici: studio, analisi, sentimento, cura verso quello che si fa e che si ascolta. Se volessimo utilizzare una sola parola per tutto questo: onestà.
In ogni caso, com’è che si dice? Il mondo è bello perché è vario? Forse.
A questo punto vi avviso: leggerete anche “lavoro presso me stesso, critico musicale”.
Buon 2019 e buona fortuna!