Cristina Donà è un mazzo di chiavi. Quelle della casa al mare. Quelle chiavi, cioè, che non hai sempre sotto gli occhi ma che sai benissimo che da vent’anni sono lì, nel cassetto. Quelle chiavi che solo quando le cerchi escono fuori. Ecco, l’impressione è che Cristina non abbia mai imposto la sua presenza ai media ma che, al contrario, siano stati i media a contattarla quando lei si affacciava dalla finestra per proporre il suo lavoro o, come nel nostro caso, promuovere un nuovo album. “Così vicini” è uscito lo scorso settembre per un’etichetta indipendente, la Quibaseluna, che l’ha accolta dopo la precedente esperienza alla Emi. La scelta di tornare a una dimensione più “umana” va, probabilmente, di pari passo con la natura del disco: intimo, dialogico, diretto a una comunicazione profonda ma a viso aperto.
«In realtà», ci racconta Cristina durante la nostra intervista telefonica, «la ricerca interiore, intima, che poi si esterna in un dialogo è sempre stata centrale nella mia musica. Diciamo che, in questo caso, il “movente” è stato il desiderio di riuscire a comunicare senza quelle mediazioni (come il telefono o internet) che oggi inquinano i rapporti. Sono convinta che, se non usata correttamente, la tecnologia possa diventare una vera e propria fonte di stress o, peggio ancora, una dipendenza. Inoltre, i rapporti umani vengono falsati dalla continua ricerca di gratificazione e da un’esposizione esagerata. L’immagine è diventata centrale: bisogna brillare, anche se per poco tempo».
Sei passata da una major a un’etichetta indipendente. Questo passaggio ha qualcosa a che fare con la volontà di tornare a una dimensione più “analogica”?
In parte sì. Anche se, devo dirlo, non ho avuto grandi traumi dopo il mio ingresso alla Emi. Bisogna ricordare che questo cambiamento è stato per me, e per tanti altri artisti, una possibilità data dal fatto che la Mescal stava chiudendo i battenti e ha venduto tutto il suo catalogo alla Emi. L’alternativa, sarebbe stata quella di trovarsi senza un contratto. Comunque, al tempo, io ero già un’artista formata, con un progetto chiaro in mente. Ho avuto anche la fortuna di incontrare persone intelligenti che non mi hanno pressato. Oggi, però, in Italia sono rimaste poche major che hanno assorbito un numero elevatissimo di artisti. Questo significa che il tempo e le risorse investite per la produzione e la promozione di un disco sono limitate. Ho deciso quindi di affidarmi a un’etichetta indipendente e di suddividere il lavoro di distribuzione e promozione (con l’ufficio stampa Big Time) proprio per garantire al prodotto una cura maggiore. È stato, infatti, un lavoro di squadra dove ognuno ha concorso per il bene dell’album. Diciamo che ho cercato ritmi più umani, un respiro più ampio, che andasse oltre le canoniche tre settimane di promozione che una major garantisce a un artista al momento dell’uscita dell’album.
Facciamo un passo indietro: il tuo esordio è inevitabilmente legato alla figura di Manuel Agnelli degli Afterhours. Com’è andato esattamente l’incontro?
Per citare Machiavelli, è stato un misto di fortuna e virtù. Tutto è partito da un mio precedente incontro con Davide Sapienza, allora fondatore della rivista musicale “Fire”. Nel ’90 ero in cerca di gruppi per organizzare un concerto durante l’occupazione dell’Accademia di Belle Arti di Brera e Davide mi ha messo in contatto con gli Afterhours. Da lì, abbiamo preso contatti fino a quando, l’anno successivo, ho aperto un loro concerto. Del nostro primo incontro mi ricordo un suo consiglio su tutti: “prova a scrivere in italiano”.
A questo proposito, credi ci sia stato un cambiamento da allora nel rapporto con la lingua italiana che, fino a poco tempo fa, le band alternative rifuggivano forse con un po’ di snobismo?
In realtà credo che gli anni ’90 siano stati un momento cruciale per la diffusione della nostra lingua anche in contesti più alternativi (penso agli stessi Afterhours o a gruppi come Verdena e La Crus). Il gruppo di riferimento erano sicuramente i CSI, costola dei CCCP, e, ovviamente, i grandi padri del nostro cantautorato. Credo che, se non si fa attenzione, cantare in una lingua straniera in un posto come l’Italia dove la conoscenza dell’inglese, ad esempio, non è diffusa come in altri paesi europei, possa costituire un rischio. Il pericolo è di scimmiottare qualcun altro ed essere ridicoli. Nonostante io abbia tradotto un mio disco (il terzo, “Dove sei tu”, distribuito all’estero con il titolo “Cristina Donà”) in inglese, con lo scopo di far uscire la mia musica dai confini nazionali, non lascerei mai che la prima stesura dei testi fosse in inglese. O, almeno, non lo farei senza un aiuto. Nella mia produzione, le parole hanno un peso enorme: non sono solo un pretesto. Comunque, se proprio dovessi esprimere un desiderio, vorrei esportare la mia musica fuori dall’Italia ma in italiano!
L’uscita del nuovo album è stata accompagnata da un tour, anzi, da un doppio tour: uno in elettrico e uno in acustico. Come mai questa scelta?
Forse perché sono cuspide! In realtà, avevo l’idea di presentare l’album in posti piccoli e intimi, solo in acustico. Poi, però, mi sono resa conto che questo tipo di performance non avrebbe reso completamente giustizia all’album, arrangiato per più strumenti. Così, abbiamo deciso di dividere il tour! Comunque, posso dire che tornare sul palco con chitarra e voce è davvero emozionante. Anche qui, cerco una dimensione più rilassata: ad esempio, mi concedo il tempo di spiegare l’album dall’inizio alla fine, introducendo le canzoni, cosa che non si può fare quando sul palco c’è una band. Insomma, ho deciso di prendermi più spazio e concedermi qualche respiro in più.
Valentina Mariani