• di Riccardo De Stefano •
Io da ragazzino (in realtà ancora oggi) sognavo di fare il musicista: riempire gli stadi, saltare sul palco, tutti i cliché alla Mick Jagger. Ancora oggi quando me lo chiedono cosa faccio nella vita, rispondo come in passato “il musicista”, a cui aggiungo da qualche anno ad oggi, “fallito”. Non ci ho neanche provato in realtà, sul serio, ma questa è un’altra storia.
Da buon musicista (fallito) quando seppi che Bomba Dischi aveva preso nel suo roster Calcutta, commentai lapidario: “faranno un buco nell’acqua”. Perché conoscevo il personaggio, visto diverse volte a Roma col suo chitarrino scordato e la voce imprecisa.
Poi la Storia ormai la sapete tutti. Calcutta, “Cosa mi manchi a fare”, “oroscopo”, #scenaromana, etc. etc.
Ieri è uscito “Evergreen”.
Deve essere una strana sensazione quella di dover confermare il proprio status di simbolo di un’intera generazione, movimento musicale, corrente generazionale. Chissà cosa avrebbe pensato Edoardo appena quattro anni fa a doversi sentire addosso il peso di un obbligo più grande di lui, quello di confermare il successo di un album come “Mainstream”.
Fare un secondo, che poi in realtà è un terzo, capitolo poteva rivelarsi un semplice e comodo compitino da svolgersi a casa. Ripetere una formula già vincente, diventata canone grazie a un esercito di epigoni, e scrivere l’ennesimo capitolo del Pop disagiato di questi anni. D’altronde essendo stato lui il principale artefice di questo exploit sarebbe stato non solo lecito ma anche comprensibile. Invece, quasi duole dirlo, Calcutta è riuscito a confermare un proprio modo di scrivere musica, senza ripetere se stesso, non necessariamente nei modi dozzinali con cui i tanti imitatori hanno provato a calcare le sue orme.
Se di schola cantorum ho già parlato in passato, “Evergreen” dimostra una cosa: Calcutta ha voluto dimostrare non solo di essere il principale autore dei nostri giorni, ma anche di avere le possibilità per portare la scena pop dove vuole lui, o perlomeno di non doversi sobbarcare il compito di “recitare” la parte del “Mainstream a tutti i costi”.
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Prendete i Thegiornalisti: avevano la stessa chance, quella cioè di tracciare una linea tra indie e musica in tv-radio-ovunque e ci hanno dato prima “Riccione” poi un Paradiso prezzemolino ovunque, infine la fiacca “Questa nostra stupida canzone d’amore”. Sfumandosi quindi dentro il calderone della musica commerciale, rimanendo sì personali, ma irriconoscibili se paragonati alla band di “Fuoricampo”.
Vero, “Evergreen” è un album che ha un sound anni ’70. Forse c’è meno singalong rispetto “Mainstream”. Rimane “Dateo” che è ovviamente un riempitivo inutile e non tutti i brani sono fortissimi (ma “Briciole” è molto meglio di “Limonata” per dire). Eppure, Calcutta ha dimostrato di sapere cosa vuole fare.
Le recenti apparizioni pubbliche – alla Festa di Bomba Dischi a Roma e ieri al Mi Ami a sorpresa – hanno rilanciato Calcutta come cantante da stadio, pugni in aria e voce in fuori, dimostrando che non è il sound la discriminante del pop di oggi, ma la cantabilità dei ritornelli (d’altronde si può cantare il pop anche con la cassa in quattro come Cosmo insegna). Quindi perché non provare a fare qualcosa di più coraggioso, come ha fatto Edoardo? “Nuda nudissima” e “Rai” sono esempi di ottima scrittura musicale, di un pop melodico che si avvicina quasi a un certo progressive italiano (“uh, oddio, a noi piacciono gli Smiths”), così come “Pesto” si rilancia come eterno, ciclico ritornello che per quante volte ripetuto, non perderà mai la sua forza. “Paracetamolo” compie il miracolo di darci di nuovo un riff di chitarra degno di questo nome – da quanto non ne sentivamo uno? – e “Orgasmo” è ormai classic Calcutta, quindi sì, è un buon brano, capace di fare “scuola”.
In “Evergreen” attraversa stati d’animo, umori musicali diversi, territori sonori contigui ma non prevedibili, scartando di lato tutta la retromania nostalgica anni ’80, e, seppure non indicabile come “attuale”, realizza un album “senza tempo”, il che è anche più difficile – e secondo me migliore.
Lo ammetto, da musicista (fallito) e da non-amante-cieco-e-disperato di “Mainstream” attendevo al varco Calcutta e il suo “Evergreen” per svelare l’arcano, rivelare la truffa, sciogliere il mistero e palesare la pochezza dell’autore. Invece, mi cospargo il capo di cenere e riconosco che Calcutta e solo Calcutta ad oggi ha i numeri e le capacità per diventare LA voce di questa generazione, al di là dei facili passaggi televisivi, delle canzoni chewingum usa-e-getta, del fenomeno del momento. Ora, “Mainstream” ha tirato fuori un esercito di cloni, epigoni, imitatori: che faranno questi? Cosa succederà adesso? Che strada prenderà il pop in Italia?