– Manuela Poidomani –
Con oltre cento giornalisti collegati sulla piattaforma Zoom, ormai la casa di qualsiasi conferenza stampa, l’incontro con uno dei più grandi cantautori della storia della musica italiana che ha da sempre cantano l’amore personale e universale: Claudio Baglioni torna dopo 7 anni con un nuovo disco dal titolo In questa storia che è la mia.
Settantotto minuti di poesia con quattordici brani, un’ouverture, quattro interludi piano e voce e un finale. “Una vita in quattordici storie che le passano attraverso”.
Claudio inizia la conferenza con un ricordo: “Cari amici vicini e lontani, stavo pensando a una mattinata come questa del 1958. All’ora ero un bambino che viveva a Centocelle, a Roma, e proprio nella piazzetta di questo quartiere veniva una volta alla settimana un camioncino ambulante che vendeva tessuti. Tutte le famiglie si radunavano attorno a lui come se stessero assistendo ad una conferenza stampa. Le parole di quest’uomo, che per me aveva il carisma per diventare un talentuoso showman della tv italiana, erano sempre queste: “Bambini, donne e mariti, siamo venuti in questa pubblica piazza perché l’altra è occupata”. Noi, pur conoscendole a memoria, ci emozionavamo. Detto ciò, questa è la mia prima conferenza stampa a distanza e ringrazio in primis voi per essere all’ascolto”.
Hai detto che il tempo si batte solo grazie alla musica. In questo disco ce lo hai dimostrato: la musica quindi lo ha sconfitto?
Non lo dico io per primo e non sarò neanche l’ultimo: il tempo è il più crudele avversario di ogni essere umano e nonostante la tua capacità di affrontarlo, vincerà comunque lui. Il vantaggio di fare questo mestiere, ma anche il valore reale, è pensare che ci sarà un qualcosa come un ricordo, una memoria o un album, che resterà anche dopo, lasciando delle tracce.
Nel primo verso infatti canto: “Ho vissuto per lasciare un segno”. Credo che questa sia la missione di chiunque venga al mondo: far rimanere qualcosa di proprio una volta che la voce tacerà.
A proposito di “ho vissuto per lasciare un segno”; che segno pensi di aver lasciato e quale vuoi lasciare ancora?
Ho iniziato a fare quello che faccio tutt’ora nel 1964 per caso, partecipando ad un concorso piccolino chiamato “Voci nuove”. Sono da sempre stato ossessionato da un verbo che è “incidere” e “lasciare un segno” è stato il motivo conduttore di questo lavoro: incidere in quella sfera intellettuale, emotiva e mentale in chi ha la voglia e bontà di ascoltarmi.
Cosa significare “cantare l’amore”, come fai tu, in questo preciso momento storico così difficile da affrontare per ciascuno di noi?
Gran parte della mia produzione precedente ha come argomento l’amore, che per quanto ne si parli ha sempre qualcosa da raccontarci e insegnarci; è la materia prima di ciò che ci circonda. Quest’album racconta tanti momenti di una vicenda amorosa, con la sua curva e con la sua parabola, e ne parlo perché questo argomento mi ha sempre interessato ed è forse anche quello che ho conosciuto di meno.
Questo album non parla assolutamente del momento che stiamo attraversando: penso che le arti dovrebbero astrarsi da quello che è il succedersi degli eventi di cronaca.
È online il video del nuovo singolo Io non sono lì, diretto da Duccio Forzano. Con lui hai un ottimo rapporto vero?
Posso ironizzare dicendo che “l’ho inventato io”. Un po’ di anni fa lui lavorava a Genova in una TV privata e io facevo un tour chiamato “Tour rosso”. Lì nacque questa sintonia che ci ha poi portato a lavorare insieme da anni.
In un mondo nuovo c’è della speranza, dell’utopia o della disillusione?
In un mondo nuovo trovi la speranza di sempre un po’ logora; sembra una vecchia militante che ha combattuto per un sogno che poi nel tempo ha avuto tante disillusioni. C’è il pensiero che bisogna ricominciare a fare dei sogni al plurale; questo significa iniziare a guardare verso una direzione comune e non nel laghetto del proprio narcisismo. Deve essere un mondo più semplice e, a differenza delle tante persone che dicono che ad oggi non ci sono più i valori di una volta, io mi discosto completamente. Per me ad oggi il mondo è troppo pieno “di roba” e chi arriva fa fatica ad infilarsi; questo spiega i tentativi spesso drammatici utilizzati per mostrarsi agli occhi del mondo.
I testi paiono preponderanti?
La mia musica è qualcosa di metafisico, non ha bisogno di essere analizzata e per essa ho seguito come linea guida l’emozione. Le parole di una canzone invece vengono spesso analizzate perché tutti conosciamo il loro significato. Ho fatto fatica a mettere insieme parole e musica perché sono fatte di materie diverse; è come confrontare qualcosa di leggero e impalpabile con qualcosa di concreto. Ho cercato quindi di mettere musica su altra musica affinché le parole avessero forma fisica.
Che soluzioni proponi per i live, ad oggi?
Non ho ricette. Operare e provvedere, anche individualmente e personalmente, è una soluzione ed insieme ad alcuni miei colleghi abbiamo fatto con sottoscrizioni private fondi di sostegno di tipo economico. Il nostro settore è uno dei più colpiti, perché è venuto a mancare il 100% del lavoro, quindi penso che ci sia anche il dovere di andare a cercare delle nuove forme di spettacolo. Io non sono d’accordo con chi dice che i concerti non possano essere fatti in streaming, perché io li ho fatti e la necessità primaria è quella di trovare una formula che sia accattivante per il pubblico televisivo.
In questo disco troviamo l’ambientazione degli anni Settanta e un uso predominante della chitarra acustica. È una sorta di rivendicazione al pop di oggi, tutto declinato all’utilizzo del computer?
Questo è un disco in costume, come un film che racconta un’epoca precedente. È un disco tutto fatto a mano; tutto suonato come si faceva un tempo.
C’è una connessione tra questo lavoro e Io sono qui del 1995?
Penso di sì, esiste come telaio. Qualcosa del genere c’è anche nell’album Strada facendo, da cui sono ispirati gli interludi. Penso che abbia due genitori: il padre è Oltre e la madre Strada facendo. È un album che sente questi cinquantadue anni di musica e che cerca di essere ancora più affermativo.