La band “torna a casa” e realizza uno show-evento che difficilmente verrà scordato. I Måneskin a Roma scrivono la Storia
– di Riccardo De Stefano –
Come è facile dimenticare il male vissuto, a volte. Sembra, oggi che siamo quasi alla normalità, che i due anni di stop di concerti ed eventi a causa del COVID-19 non siamo mai accaduti, che tutto possa essere dato per scontato.
Ma provate a fare un salto indietro a ventiquattro mesi fa e ditelo a un ragazzo qualsiasi: i Måneskin riempiranno il Circo Massimo con (pare) settantamila persone paganti, e il tutto sembrerà folle. Non solo per lo stop ai concerti, ma perché il fenomeno Måneskin ancora era ben lontano dal diventare questa proto-isteria di massa che viviamo adesso.
Sembra una vita fa, eppure si parla di appena diciotto mesi, nei quali i Måneskin sono passati dall’essere una band italiana sopra le righe, a vincere a sorpresa Sanremo, per poi trionfare all’Eurovision, dominare i trend di TikTok e sbarcare in America, per poi realizzare tour mondiali. E infine, la band torna a casa e riempie il Circo Massimo, come e più dei grandi act internazionali.
IL CIRCO MÅNESKIN
«Oh, the streets of Rome are filled with rubble» cantava Bob Dylan, e non so se si riferiva a questo, ma il Circo Massimo sembra la cornice perfetta per queste parole. Il colpo d’occhio, appena arrivati nel luogo dell’evento, è impressionante: alle otto e venti (sì, sono arrivato tardi, che devo dirvi?) la fiumana di gente è impressionante, e seppure tutto il mondo sanitario suggeriva di evitare assembramenti di questo tipo per contrastare l’ormai apparentemente dimenticato COVID, quasi nessuno – me compreso – sembra preoccuparsi realmente della minaccia.
Al Circo Massimo ho visto in passato artisti come Rolling Stones e Bruce Springsteen, e persino gli italianissimi e scomparsi Thegiornalisti, in quel concerto-funerale dell’indie del 2019. La differenza sostanziale è che questi Måneskin sono qualcosa di diverso da tutti questi nomi: hanno il pubblico dei primi artisti e l’origine dei secondi, il che è decisamente surreale. Se infatti i fantomatici quarantamila paganti per i Thegiornalisti erano tutti grosso modo italiani e pubblico locale, per i Måneskin trovo e sento ovunque persone che parlano lingue diverse, e storie diverse.
Incontro Nicolas, che viene dalla Liguria insieme a un suo amico spagnolo di Valencia e che ha accompagnato una coppia italo-siriana di neo-sposi scappati dalla guerra; ci sono tre ragazzoni statunitensi, dalla California, che sono esattamente come li immaginate e che, in vacanza a Roma, ne hanno approfittato per sentire il concerto di “questi Måneskin” (che, ovviamente, pronunciano diversamente da noi – e ne ridono beatamente), dato che «non esiste in America una location così»; incontro due biondissime ragazze di cui non riconosco la lingua, ma che parlano italiano e capiscono ciò che dice Damiano.
Insomma, la differenza sostanziale è che i Måneskin non sono un fenomeno locale, ma mondiale, per cui il pubblico è venuto per assistere a un concerto-evento, l’apoteosi di una band di ragazzi italiani che chiude il cerchio e diventa qualcosa di più grande.
PARTENZA COL BOTTO
Senza band di apertura, alle nove e mezza circa, minuto più minuto meno, i quattro ragazzi romani salgono sul palco. Io, a ridosso delle transenne del parterre, sono a una distanza dal palco di quasi sessanta metri, visto che il Paradiso del pit spetta solo ai fortunati possessori di biglietti gold e silver, per l’ennesima speculazione ai danni dei fan.
Ma questo toglie poco allo show: la band parte fortissima con “Zitti e buoni”, il brano che li ha resi celebri in Europa, con un gran tiro e la consapevolezza che in quattro riescono a tenere il palco alla grande senza bisogno di sequenze, basi e ammennicoli vari.
Si parla spesso di “rock” in Italia, e del fatto che i Måneskin non siano “realmente rock”, semplicemente perché l’intenditore di turno non gradisce il materiale del quartetto. Io non mi esprimo, anche perché poco importa se il rock sia “vero” o “finto”: la band suona e suona molto forte, con un ottimo lavoro dei due alla parte ritmica, Ethan alla batteria e Victoria al basso (per inciso: niente seno scoperto per lei), e Thomas alla chitarra che ha sviluppato anche un suono personale, effettando la chitarra specie nei solo con vibrato e chorus, riuscendo ad alternare timbri interessanti.
E chiaramente al centro di tutto e tutti c’è Damiano che è sempre stato un predestinato e che si conferma quanto più vicino a un Rock God possiamo avere qui: carismatico, atletico, regge per tutto il concerto con zero o quasi sbavature, trascinando il pubblico quando necessario.
I primi venti minuti di show volano via, con il gran tiro di “Il nome del padre” (da “Teatro d’ira – Vol. I”), “Mammamia”, singolo un po’ debolino sulla scia del successo in terra straniera, “Chosen” il primo brano scritto agli esordi, prima ancora di X Factor, sin dai tempi del Pulse Contest e una straniante versione di “Womanizer” di Britney Spears (che entusiasma particolarmente i miei vicini californiani).
Il pubblico si accende e spegne a ondate, a seconda di quello che conosce e ri-conosce: “Coraline” è uno dei momenti più intensi dello show, visto anche come la power ballad sia la cosa migliore mai fatta dai Måneskin, e seppure lo show sia pieno di cover, fa piacere sentire “Amandoti”, tirata fuori dal loro Sanremo, cantata a squarciagola da un pubblico che non ha idea chi sia Giovanni Lindo Ferretti.
Ovviamente l’exploit arriva con “I Wanna Be Your Slave”, brano che ha scardinato le porte d’oltreoceano, divertente seppure abbastanza inconsistente, ulteriore prova che con la cassa in quattro si balla sempre.
DAMIANO, PUTIN E IL RESTO DEL MONDO
In una delle poche presentazioni di Damiano, il cantante dice: «Questa cosa potrà dare fastidio a qualcuno, ma noi la vogliamo ripetere: fuck Putin!», causando un’ovazione e facce stupefatte del pubblico internazionale intorno a me: lanciano così “Gasoline”, sorta di protest song AOR overproduced sulla situazione delle guerre in Europa e nel Mondo, particolare ma molto piacevole.
E piacevole anche il siparietto acustico centrale, dove la scena la tengono solo Damiano e Thomas, che da solo, chitarra acustica, regge benissimo un palco davanti a settantamila persone.
I brani – presentati, vista la provenienza geografica del pubblico, in lingua italiana e inglese – sono le ballad trademark della band: “Vent’anni” e “Torna a casa” confermano che la band sa scrivere canzoni e che funziona meglio nel formato rallentato che nei brani tirati. E il pubblico canta in coro.
A quel punto Damiano si concede una presentazione più lunga in cui introduce «qualcosa di mai sentito» (scivolando su una gag un po’ trash, per quanto spontanea, orbitante intorno la possibilità che si trattasse di «un rutto di Thomas», ma so’ ragazzi, dai): il brano presentato, in inglese, «non ha un titolo, non è stato registrato, è solo una demo», concessa al pubblico vista la location e l’occasione speciale, ed è un’altra ballata di buona fattura.
L’ultima parte dello show ritorna elettrica, con qualche assolo di Ethan e di Victoria, la cover del loro spirito guida Iggy Pop di “I Wanna Be Your Dog”, che li rende forse dei wannabe ma alla fine gira bene, la ormai celeberrima “Beggin'” che li ha resi il fenomeno mondiale che sono e per cui dovrebbero benedire per sempre TikTok, e scivola via verso il finale con l’ormai antica “Morirò da re”, che si trasforma in una pessima versione, dissonante e amelodica, di “My Generation” degli Who, performata più per il concept che per la canzone, prima della conclusiva “Lividi sui gomiti”, sempre dal loro ultimo album.
DUE ORE DI SHOW
E qui, prima dei bis, si capisce come il giovane pubblico non sia realmente abituato ai concerti, dato che dopo i vari «We are Måneskin» urlati e l’abbandono del palco, in tanti si spostano andandosene via, permettendomi così di fare quei venti metri in avanti e vedere finalmente qualcosa sul palco, in tempo per far ricomparire Thomas, chitarra in mano, impegnato in una sorta di solo un po’ sgangherato, ma necessario momento limelight dovutogli.
La scelta dei bis cade intorno una piacevole “Le parole lontane”, brano secondario del loro primo album, e di nuovo “I Wanna Be Your Slave”, dove di nuovo Damiano gioca col pubblico facendolo abbassare e poi saltare, confermando il brano come il più coinvolgente del set (per quanto piuttosto inascoltabile, va detto).
Quindi, finisce tutto, stavolta davvero: dopo due ore piene di show, il Circo Massimo è una coltre di polvere, sabbia e, probabilmente, COVID. Il deflusso di settantamila persone è lento e il vociare internazionale confuso e rumoroso, com’è giusto che sia.
LA CONSACRAZIONE DEFINITIVA
Più che un concerto una consacrazione, un celebration day per il gruppo italiano più di successo degli ultimi vent’anni (almeno). E al netto delle gelosie, delle invidie, dei risentimenti di parte del pubblico e della critica nostrana, si può solo dire che i Måneskin servono alla musica italiana: in una stagione di prezzi folli, cachet gonfiati, artisti spinti con lo stantuffo, investimenti e speculazioni di manager, discografiche, booking e quant’altro, con centinaia se non migliaia di paganti delusi e concerti semi-vuoti, i Måneskin invece sono qualcosa di “più”, se non di “meglio”.
Se non vogliamo cadere nella retorica de “la favola dei Måneskin, dalle strade di Roma al Circo Massimo”, possiamo solo riconoscere che il quartetto ha davvero rubato poco e raccolto benissimo quanto seminato, rimanendo coerente e coeso nonostante l’ubriacatura del successo mondiale. Il prodotto Måneskin funziona perché i ragazzi sono onesti, sinceri e appassionati, ben dentro il circuito mainstream ma apparentemente lontanissimi dal divismo di taluni personaggi della nostra musica, sempre sulle prime pagine o nei commenti delle persone, eppure neanche lontanamente avvicinabili ai successi attuali dei ragazzi di Roma Ovest.
I MÅNESKIN E QUELLO CHE MANCAVA IN ITALIA
Fa quasi strano dirlo, ma i Måneskin pur essendo nati e cresciuti a qualche chilometro da me, sembrano provenire da un altro mondo, per un pubblico più grande, senza frontiere: il concerto al Circo Massimo a Roma è più vicino alla celebrazione di una grande band internazionale che a uno show di una band locale. E il fatto che ancora oggi non esistano emuli dei Måneskin da noi – ancora inebetiti dai rimasugli di itpop, trap e hyperpop à la Blanco – è la prova del fatto che i Måneskin sono una mosca bianca e che non possono che essere qualcosa di cui andare orgogliosi, a prescindere dai gusti personali.
Perché se fosse facile, con un power trio d’altri tempi, riuscire a conquistare tutte queste persone, lo farebbero tutti. E invece i Måneskin al Circo Massimo ci dicono che come loro nessuno, e se non è talento questo, difficilmente so definirlo. Lunga vita ai Måneskin, che ci ricordano come si possa sognare in grande e realizzare quel sogno, anche in Italia, anche a casa nostra.