– di Giacomo Daneluzzo –
Ciliari, ex Gli Amanti, ha pubblicato il suo disco d’esordio Maledetti noi lo scorso dicembre, un disco di un cantautorato pop elegante e consapevole – l’abbiamo recensito qui. Il cantautore, di stanza a Milano, ha intrapreso il percorso da solista alla fine del 2020 e ha all’attivo i due EP Lato C e Lato D, oltre alla partecipazione nel 2023 al celebre Concertone del Primo Maggio di Roma. Maledetti noi è stato anticipato dai singoli Maledetto amore, Enoteca discoteca, Puntifragola e Basta. Gli abbiamo fatto qualche domanda per saperne di più sul disco e sul percorso artistico e umano che l’ha portato a realizzarlo. Ecco che cosa ci ha raccontato!
Maledetti noi è uscito da più di un mese: hai un parere “a freddo” da darmi rispetto a questo disco?
Io sono contentissimo, non vedevo l’ora che uscisse! C’è dietro un lavoro di due anni e sono super contento. Abbiamo fatto questa cosa pazza, anti-commerciale, di far uscire il disco a dicembre, un rischio che ci siamo presi perché l’importante per noi era dare importanza alle canzoni: chi vuole se le andrà ad ascoltare, poi vediamo che cosa succede. L’idea è sempre quella di far vincere la musica.
Io non vado in studio pensando: «Oggi scriviamo la hit». Arrivo in studio perché ho vissuto qualcosa e mi sono messo a scrivere un pezzo. Ci è voluto un po’ di tempo, per scrivere le mie canzoni, per trovare la sincerità.
La sincerità è un po’ la tua cifra, già in vari contesti le tue canzoni sono state definite in questo modo, «sincere».
La mia musica è così, è un po’ come una trattoria sincera. Magari non è il ristorante super ricercato, ma è un posto bello, vissuto, in cui la gente si sente bene, si sente a casa.
Credo molto nei miei brani, sono figli miei e ognuno ha la propria importanza. Alcuni mi emozionano tantissimo: nel disco vecchio [Lato C, nda] c’è Porno 80, un pezzo che ogni volta che lo suono dal vivo mi dà emozioni forti, in questo c’è Maledetto amore: mi viene proprio quella cosa lì, impazzisco dentro. Quando faccio queste canzoni dal vivo mi emoziono e si vede, ogni volta che le canto è un casino. È un disastro, ma un disastro bello, perché anche gli altri capiscono che sono cose molto vissute.
È il tuo esordio come Ciliari, ma hai già pubblicato due dischi con Gli Amanti, in passato. Che cosa cambia tra pubblicare un album in un gruppo e farlo da solista, visto che comunque c’è sempre dietro il lavoro di più persone?
Quello che dici è vero, ma c’è da dire che dipende da com’è impostata la band. Per quanto riguarda Gli Amanti era un’impostazione molto particolare, perché tutti mettevamo del nostro, era un lavoro collettivo e dividere le esperienze e gli ascolti era sicuramente bellissimo, ma allo stesso tempo era anche difficile mettere insieme teste diverse, ognuna con un ruolo da protagonista. Questa è la mia esperienza di band – e penso che sia anche il motivo per cui spesso le band si dividono.
Con Ciliari invece parto dal mio vissuto e racconto me stesso. È una cosa più personale. Poi certo, col produttore con cui lavoro al pezzo lavoriamo insieme: io scrivo una canzone, poi andiamo in studio e il produttore cerca di capire che cos’ho in testa, di indirizzarmi e mettere insieme le idee, magari cerchiamo insieme di trovare un sound particolare.
Sono entrambe esperienze incredibili, non direi che una sia migliore dell’altra, solo che sono modi diversi di scrivere.
Hai detto che le canzoni di base le scrivi tu, ma nei crediti ci sono anche altri autori: come s’inseriscono in questo processo?
Io do molta fiducia ai miei produttori, Coletti, Riccardo Scirè, Adel. Può essere che insieme si pensi di tagliare una strofa o di cambiare qualcosa per far arrivare bene il messaggio che ho in testa: penso che sia importante essere pronti a migliorare e avere questa possibilità è una cosa che adoro. È come dare un +1 a quello che sto facendo. Nella scrittura dei testi capita un po’ meno rispetto alla musica, ma è successo con Marco Rossi, per esempio: ero con lui, che è un mio amico, ha sentito il pezzo e ha detto: «Bellissimo, ma perché non ci mettiamo questo?» e così è stato. Anche in questo caso è stato molto naturale.
Nonostante la sincerità “da trattoria”, spontanea, di cui abbiamo parlato, secondo me si sente una certa consapevolezza nell’uso di certe forme: Maledetti noi è un album molto curato. Si sente che non è il disco di un esordiente, per così dire.
Ormai sono dodici anni che sono in giro, prima con Gli Amanti e poi come solista. Quando ho iniziato l’indipendente era ancora qualcosa, abbiamo fatto quella scuola lì, quella gavetta lì. Poi, come tutti, ci siamo evoluti e ognuno ha seguito la propria strada. La crescita è importantissima e io voglio dare qualcosa di bello, che deve piacere in primis a me – altrimenti non lo faccio. Non intendo screditare nessuno, ma non voglio creare altra musica che non ha senso: ho l’opportunità di fare qualcosa, di far arrivare la mia musica agli altri o almeno provarci e voglio farlo al meglio.
Poi comunque ho ascoltato tanta musica e mi piace riprendere le cose che mi hanno colpito di più e metterle nella mia musica, pur rimanendo me stesso. Ho ascoltato tanta musica bellissima, in questi anni. Mi ricordo che nel 2009-2010 sentivo gli allora sconosciuti Dimartino, Colapesce, Brunori, Brondi… Suonavamo nelle stesse situazioni e pensavo: «Ma quanto scrivono bene?» e mi rendevo conto che stava succedendo qualcosa alla scena; li reputavo e li reputo autori bravissimi.
Un altro di cui ho la stessa considerazione è Andrea Laszlo De Simone, che è apprezzato in Francia (così come Battisti era apprezzato nel Regno Unito). L’ho conosciuto quando suonava negli Anthony Laszlo, che per me erano fenomenali già allora, dei geni.
La gavetta è importante, il live è fondamentale. Sono andato a sentire Colapesce e Dimartino recentemente e sono ancora dei draghi. Non m’interessa il successo, vorrei continuare a fare quello che sto facendo in questo modo, cioè in maniera libera.
Tutto ciò a prescindere da Battisti e Dalla, che ascolto tutti i giorni, e da Enzo Carella.
Che rapporto hai con Enzo Carella? Non è un nome così universalmente noto come Battisti e Dalla, eppure lo citi in tutte le interviste – e hai anche fatto una bella cover di Malamore come chiusura della live session per Teal & Orange.
Me lo sono anche tatuato, proprio la parola “Malamore”. A livello di scrittura e composizione può quasi confondersi con Battisti. È molto ricercato ed è stato capito pochissimo. Mi ritrovo molto in Enzo Carella.
Peraltro condivide con Battisti il fatto di aver lavorato a lungo con il paroliere Pasquale “Lino” Panella, che ha scritto i testi dell’ultima parte della carriera di Battisti.
Anche Battisti è diventato qualcosa di molto diverso, con Panella. Io penso che Malamore, se non conosci Carella, potrebbe passare per un pezzo di questa fase di Battisti.
Un altro pezzo bellissimo di Carella è Parigi: strano, folle, mistico.
A proposito della ricerca della forma in Maledetti noi, le prime tracce sono quelle più allegre, più leggere, poi si passa a un lato più riflessivo, denso e impegnativo, per poi chiudere in un modo un po’ più sereno. È un disco con due anime, ben bilanciate: come coesistono?
Mi fa piacere che ci sia arrivato, perché vuol dire che sono riuscito nel mio intento. Mi stai facendo un regalo grandissimo, sono molto contento.
In questo disco ho cercato di riportare il mio percorso di vita, di raccontare come ci si sente nella vita. Ci sono giorni in cui ci ti senti da paura, in cui sei felice e vai a fare casino in giro, altri più complicati, in cui rimani a casa e pensi a cose più complesse. Il percorso di ogni persona è fatto di momenti wow e momenti di merda. Secondo me è un processo naturale, la vita è fatta in questo modo e volevo metterlo nelle canzoni.
In chiusura c’è la traccia strumentale Fine: dopo tutto quello che hai detto, dopo tutte le cose che hai fatto, dopo che hai riso e hai pianto fai un esame di coscienza e stai lì.
È come nelle storie d’amore: l’innamoramento è l’inizio, non capisci niente, tutto è bellissimo, gli uccellini cantano, bevi più di quanto riesci a reggere, ti ubriachi… E poi capisci che era solo quella roba lì. «Ma non confondere l’amore e l’innamoramento», come dice Brunori. E ha ragione. Il disco è questa roba qua, è un percorso di questo tipo.
Sei milanese d’adozione, ma pugliese d’origine, per di più di una piccola città come Noci [in provincia di Bari, nda] – dove tra l’altro sono passato, brevemente, l’estate scorsa. Com’è stato passare dalla provincia alla metropoli e che rapporto hai con la tua terra di origine?
Noci, per essere piccolissima, è molto attiva. In tempi non sospetti ospitava il BucoBum Festival, in cui hanno suonato Dimartino, Brunori, i Criminal Jokers e molti altri. In quegli anni tutti conoscevano Noci. Dimartino ogni tanto ci torna. Comunque la prossima volta che vai a Noci devi provare il cornetto del Bar Pace.
In realtà prima di trasferirmi a Milano io ho fatto due anni di università a Perugia. Dopo il liceo psicopedagogico a Noci mi sono iscritto a scienze politiche lì, perché volevo fare la rivoluzione. E poi mi sono spostato a Milano, per inseguire il sogno della musica. E qui ho iniziato a lavorare al Massive Arts, dove ho iniziato a fare la mia musica. Ho conosciuto un sacco di musicisti e ho imparato tanto, ho lavorato con chiunque. Tra i personaggi che sono passati al Massive ci sono Pharrel Williams e Justin Bieber.
Di Noci conservo la poesia. Quando vivi lì hai molto tempo, qui si va molto veloce. È per via di Noci che ho avuto la necessità di andare in giro, di sognare qualcosa di nuovo. Sono super legato a Noci, lì c’è molta bellezza e la mia famiglia.
Comunque non hai accento, proprio zero. Potresti assolutamente essere di Milano.
In effetti non ho mai avuto un grande accento. Poi mi è anche capitato di fare un po’ di pubblicità e di parlare in radio, che ha smussato ulteriormente. Però quando mi ubriaco mi trasformo e mi parte il nocese.