– di Giacomo Daneluzzo –
Il cantautore e musicista capitolino Cigno, all’anagrafe Diego Cignitti, ha pubblicato da qualche giorno udine, un brano pop dalle sonorità psichedeliche che parla appunto di un viaggio verso Udine, la città che non si conosce, in cui non si è mai stati, la città che s’immagina, dandole le caratteristiche del proprio disagio interiore. Gli abbiamo fatto qualche domanda sulle sue ispirazioni e sul singolo, nato durante un viaggio verso SofarUdine con la cantautrice e autrice Ilenia Bianchi, sua sorella, e rimasto tra le note audio del cellulare fino a qualche mese fa.
udine è una ballata psichedelica, che racconta un viaggio verso “un’idea”, una città-simbolo, a cui sono associate delle caratteristiche ideali. In che modo quest’idea si concretizza nella tua vita, come percepisci quest’idea nella tua quotidianità?
L’idea concetto di udine non è altro che l’immaginazione. E l’immaginazione ormai è una merce preziosa, e non parlo solo di immaginazione finalizzata alla creatività, ma anche di immaginazione come evasione personale. Se ti sai divertire con l’immaginazione la tua felicità non è dipendente da nessun fattore esterno e nessuna altra persona. L’immaginazione è l’antidoto al consumismo, e a volte mi piace più scrivere immaginando le cose invece che raccontarle come cronaca.
Alla fine ci sei stato, a Udine. Com’è stato l’impatto con la “vera” Udine rispetto alle aspettative immaginifiche che ti eri creato durante il viaggio?
Premettiamo che poi a Udine abbiamo avuto un’accoglienza speciale dai ragazzi di Sofar Udine, ed è stato un live magico. Se devo dire la verità abbiamo girato per la città la mattina successiva, forse ancora ubriachi della sera prima, e sinceramente non ricordo così bene. Però quello che ho trovato in comune tra il sogno è la realtà è un certo “mistero concreto” aleggia nella città di Udine.
Nel brano definisci questa città ideale “utile” alla tua solitudine: che cosa intendi? Che cosa può aiutare a contrastare il senso di solitudine?
È l’altra faccia della medaglia della domanda numero uno, ossia: trovando nell’immaginazione l’appagamento totale, il rischio è quello di trovarsi sempre soli. Dunque tutta questa immaginazione è “utile” alla mia solitudine e al mio disagio. Non nascondo poi che l’assonanza musicale tra le parole utile-Udine-solitudine m’intrigava.
Nella tua produzione c’è molto passato, soprattutto a livello di sonorità, pur essendo al contempo tutto estremamente contemporaneo, anche per via del linguaggio che utilizzi. Che rapporto hai con la musica “vecchia”, con le ispirazioni degli anni d’oro del blues, del rock, della psichedelia? E qual è il fil rouge tra queste ispirazioni e quelle appunto più contemporanee?
Nel 1958 uscì un album intitolato New Bottle, Old Wine, in cui Gil Evans si divertiva a riarrangiare brani dell’epoca jazz a lui precedente. Io ovviamente non c’entro nulla con il jazz strumentale, ma il concetto della bottiglia nuova con il vino vecchio mi aveva molto colpito. Cioè, avere un attitudine per la musica rétro , ma proporla poi con involucri moderni. Cercare una chiave moderna a un linguaggio vecchio. Come se sentissi innanzitutto di trovare la mia patria musicale più in quegli anni che negli odierni, insieme al fatto di sentire che quella musica è ancora calda e viva, e può avere ancora una carica artistica positiva attiva.
Il brano d e t r o i t AKA ragni, come altri tuoi brani, è stato stilizzato in modo particolare. Si tratta di un richiamo all’estetica vaporwave? Che cosa pensi di questo fenomeno?
A me la vapor piace da morire. Adoro ad esempio la pubblicità della Cedrata Tassoni in stile vapor, oppure Alta marea di Antonello Venditti (per citare alcuni esempi italiani), per non parlare poi di tanti altri pilastri del genere come 18 carat affair o luxory elite. Credo che la vaporo sia la fotografia musicale di come ricordiamo la musica nella nostra mente. Quando cerchiamo di ricordare un brano lo riverberiamo nei nostri pensieri , che sono sempre persi e lontani e lo immaginiamo con la patina filtrata del tempo, che rende tutto molto più offuscato.
In udine racconti il disagio interiore, anche in relazione a un amore che presenta caratteristiche sicuramente particolari, non così frequenti nei testi che ne parlano: è un sentimento profondo, in cui riecheggiano diverse ombre. Quali sono i lati “inquieti” dell’amore che descrivi?
Nel brano c’è la paura di non essere più entità singole. La consapevolezza di essere ormai divisi indissolubilmente in un’altra persona. C’è l’amore che può diventare un’ecografia di 2 settimane in bianco e nero, con una lucina bianca che lampeggia veloce. Un cuore che va all’impazzata. Una cosa troppo profonda, così profonda che diventa buia come l’abisso dell’oceano.
Il richiamo psichedelico, sia musicale che lirico (ma anche grafico), è una scelta piuttosto originale in questo periodo, hai degli ispiratori specifici, in questa parte della tua produzione artistica?
Io adoro Ariel Pink come Tame Impala. Ma anche scavando più nel passato Syd Barrett , Robert Wyatt, George Harrison…
Ti sei formato come chitarrista blues/rock, quanto ha influito questo esordio nel tuo approccio alla scrittura e alla composizione, in seguito?
Questo è per me più un obbiettivo. Mi piacerebbe portare la libertà espressiva della chitarra blues, come l’improvvisazione estemporanea, nella composizione del brano come nel testo, quel sentirsi liberi di osare con le parole o con l’arrangiamento, con la stessa libertà di un assolo di chitarra. Parlando più concretamente, invece, tutto ciò fa si che in ogni mio brano, vuoi o non vuoi, in linea di massima, rimanda sempre alla tradizione della presenza di un assolo di chitarra. Che è la mia seconda “voce”.