– di Assunta Urbano –
Il percorso musicale di Chiara Vidonis prende il via nella sua terra natale, Trieste. Nella città di confine per eccellenza, inizia a scrivere i suoi primi testi in italiano, in cui si percepisce una forte influenza rock.
Il debutto discografico della cantautrice avviene nel 2015, con l’album “Tutto il resto non so dove” per Goodfellas. Il 29 aprile del 2022 la musicista pubblica “La fame”, per FioriRari. Le otto tracce vengono prodotte da Karim Qqru, degli Zen Circus.
Del disco recente e dell’appuntamento dal vivo, il 24 agosto sul rooftop Feria del Lanificio, a Roma, abbiamo chiacchierato con la protagonista di questo lavoro, Chiara Vidonis.
“La fame” è il secondo disco di Chiara Vidonis. Ci racconti di questo lavoro?
Arriva qualche anno dopo rispetto al primo. Ha avuto una gestazione più lunga, perché avevo bisogno di capire la direzione da prendere. Avevo voglia di stimoli e di trovare io stessa qualcosa di nuovo nella mia musica. Il destino ha fatto capitare sulla mia strada Karim Qqru, batterista degli Zen Circus e in seguito produttore del disco. Mi ha effettivamente dato una visione diversa. Il precedente è stato un lavoro più artigianale, da band. In questo caso, ci siamo confrontati e abbiamo deciso i vestiti da dare alle canzoni. Ne è venuto fuori un progetto di cui sono molto orgogliosa.
L’album si apre con la canzone “La mia debolezza”. Quale pensi sia la tua e quale invece il tuo più grande “Talento naturale”?
Ogni giorno scopro una mia nuova debolezza. Il talento naturale è più semplice, perché è quello che descrivo già nella canzone: riuscire a rinascere e morire ogni giorno. Naturalmente non in senso così letterale, ma diciamo che non mi do per vinta e non ho paura di ricominciare e rimettermi in gioco. Anzi, è una cosa che mi piace molto. Il disco, se vuoi andare a scavare, è pieno di debolezze. Avevo proprio il desiderio di smascherare un po’ alcuni lati dell’essere umano. Volevo renderlo meno invincibile di quello che sembra. Dovremmo cercare tutti di smascherarci.
Quando hai scritto queste canzoni pensavi inizialmente non avessero un legame tra loro. Poi il fil rouge è arrivato da solo ed è diventato il titolo del progetto. Perché “La fame”?
Come hai detto anche tu, c’è un fil rouge. Io scrivo tanto e lo faccio continuamente. Le otto canzoni che compongono il disco non sono le uniche che ho creato in questi anni. Quando ho buttato giù “La mia fame”, uno dei brani dell’album, mi sono resa conto di avere interpretato questa parola con il significato di stimolo, desiderio di conoscere l’altro, di nutrirsene e non essere soltanto travolti.
Mi piaceva il concetto di “Fame” visto sotto vari aspetti. Quella che mi interessava di più era la brama di interagire con l’altro, soprattutto, che non deve diventare dipendenza. Poi, c’è quella di cui siamo tutti vittime, la fame di contenuti. Questa invasione di concetti di cui pensiamo di nutrirci, ingurgitando tutto tramite social e internet. Non ci restituisce nulla. Ci ingrassa, ma non ci nutre. Mi piaceva moltissimo questo pensiero, così ho iniziato a fare una cernita dei pezzi e mi sono accorta dell’esistenza di un filo conduttore. Sono contenta che ci sia nel disco.
In un certo senso “La fame” è anche il non accontentarsi e tendere sempre oltre?
Sì, fino a che siamo vivi, avremo sempre “fame”. Non possiamo controllarlo, ma è bello che questa reazione del fisico sia anche quella dell’anima, dello spirito. È necessaria per definirci esseri umani che si evolvono.
Da triestina, quanto hanno influito le tue radici sul tuo modo di fare musica?
Essere triestina mi ha influenzato proprio come essere umano. Ci si sente sul confine, con un piede da una parte e uno che sta già partendo per l’est Europa. È una condizione strana. Ho vissuto per dieci anni a Roma e mi sono confrontata con la situazione opposta, ovvero il ritrovarsi al centro del mondo. Hai citato prima il brano “La mia debolezza” ed effettivamente io lì prendo proprio l’immagine del confine, più nello specifico il mare. Qui a Trieste il mare si fonde con quello croato e sloveno, ma l’acqua non ha veramente confini. Mi piaceva che la figura del mio territorio entrasse prepotentemente in una canzone per esprimere la necessità di fondersi tra esseri umani.
Il 24 agosto ti esibirai insieme a Lepre al rooftop Feria del Lanificio, a Roma. Come sarà il live?
Saremo in tre, con diversi strumenti a testa. Ci sarò io con la chitarra acustica e qualche volta al basso, Matteo Dainese alla batteria e gestirà anche sequenze dal vivo. E infine Alessandro Santi al basso e ai synth.
Spero di ritrovare tutte le persone che ho effettivamente lasciato a Roma e di risentire il calore della città.
Siamo entrati per un po’ nel mondo di Chiara Vidonis. Ci sveli “quello che hai nella testa”?
Come nel caso delle debolezze, anche qui ogni giorno c’è qualcosa di nuovo. È tutto in continuo fermento. Nella mia testa, però, ho un punto fermo, che è il desiderio di essere felice. Può sembrare una banalità, ma in fin dei conti non è così. Mi sono chiesta quale fosse il mio obiettivo nella musica. Deve essere un valore aggiunto. Deve darmi e non togliermi nulla. Questo è “Quello che ho nella testa”. Spesso cerco di riformulare sogni, prospettive, aspettative e direzioni prese in base a ciò che mi rende felice.