(avvertenza: questo articolo supera coscientemente la durata media di lettura a cui sei abituato, quindi puoi far finta di averlo letto. Basterà dire che “in parte ha ragione, ma è troppo presuntuoso” e la sfangherai anche stavolta, amico mio)
Questa analisi, questa riflessione, si muove sull’onda emotiva di alcuni articoli emersi in questi giorni che ponevano l’accento su una problematica che nel nostro Paese è sempre molto attuale (vedi articolo di Giancarlo Frigieri qui e la risposta di Marcello Zinno qui). Che cos’è la critica musicale e a cosa serve?
Intanto mi presento.
“Salve, io mi chiamo Riccardo De Stefano e faccio il critico musicale”.
Nessuno si scandalizzerebbe a sentirmi dire questa frase, un po’ perché scrivo in giro, un po’ perché ormai essere critici musicali significa solo avere la possibilità di esprimere un proprio gusto. Cioè, non è niente più che comunicare una propria idea e spacciarla per “grande riflessione”, per grande verità. Un po’ come dire che se sai fare un soffritto sei uno chef.
Ora andiamo con ordine e proviamo a rispondere alle due domande del titolo.
Che cos’è la critica musicale?
Ecco, iniziamo subito a sciogliere il nodo principale, dicendo cosa non è.
Critica musicale non è dire se un album è bello o brutto, se ci è piaciuto o meno. Punto. Chiaro. Semplice.
Dire se un album è bello o brutto è questione di gusti, di faccende, di momenti e storie personali. Chi siete voi per dire che mia cugina di 13 anni non può ascoltarsi fieramente Justin Bieber? (a parte il fatto che non ho una cugina di 13 anni)
Perché i suoi ascolti sono sbagliati e i vostri giusti? Perché difendete a spada tratta l’indipendente e osteggiate con livore il mainstream? Perché chi vende milioni di dischi di pop generico non è comunque un grande artista?
Sbilanciarsi indiscriminatamente su questi punti “è proprio una cosa presuntuosa, su questo ti do ragione” (cit. decontestualizzata di Giovanni Truppi).
Quindi no, basta. È dall’800 che è finita la tiritera bello/brutto, non interessa a nessuno. Se voi, amici miei, scriveste un articolo dicendo quanto è bello questo disco e quanto è brutto quello (sempre che ancora si dica che i dischi sono brutti) allora avreste perso un’occasione per dire qualcosa di intelligente. Ma non preoccupatevi, lo sappiamo tutti che lo siete comunque, intelligenti.
Ora, veniamo a noi. Di cosa dovrebbe trattare una critica musicale sensata?
Essenzialmente dovrebbe dire perché un disco è importante, perché andrebbe ascoltato e cosa comporta tutto questo per chi ha la fortuna (o sfortuna, nel caso) di vivere l’esperienza di quell’ascolto.
Per dire: le recensioni disastrose su “Metal Machine Music” di Lou Reed, o di “Self Portrait” di Bob Dylan, tra tutte quella leggendaria di Greil Marcus (sempre che voi sappiate di cosa sto parlando) non vertevano tanto su quanto fosse “brutto” quel disco. Chi se ne frega se è brutto. Le recensioni tentavano (quando fatte bene si intende) di rispondere alla domanda “perché un artista come Reed/Dylan/etc ha fatto un disco così? Perché questo disco a me sembra brutto?”(Notare la leggera inclinazione semantica della frase che apre nuovi e insperati orizzonti di senso).
Ecco cosa dovete sviluppare: capacità di analisi diacronica e sincronica (cioè per quel che concerne la carriera dell’artista e del panorama musicale intorno a lui, nel presente e in una visione temporale). Capacità di analisi del messaggio intrinseco, del testo e del sottotesto, tanto musicale quanto lirico delle composizioni: che cosa ha fatto? Perché il disco suona così? Che cosa voleva dire e perché l’ha detto così? Poteva dirlo in altri modi? Chi l’ha detto prima? Chi lo dirà dopo? Ecco cosa sarebbe bello leggere in una recensione, una intervista e qualsiasi cosa che riguardi la musica (e non solo).
E ciò ci porta alla seconda domanda:
Perché la critica musicale fa così schifo in Italia (perlopiù)?
Perché si è persa effettivamente l’autorialità dello scrivente, mentre le testate, seppure cambiate nel formato, non hanno perso autorevolezza. Mi spiego: tutti pensiamo di leggere quello che dice “Rolling Stone”, il “Mucchio”, “Blow up”, “OndaRock”, “Rockit” e via dicendo, perché sono autorevoli. Sono famose. E sono famose o perché hanno una storia, o perché sanno comunicare bene. Ma ormai in Italia non esistono più autori, non i “nomi” (tranne qualche rara eccezione tra i professionisti) formatisi in anni di selezione naturale dovuta alla limitatezza del cartaceo. E non esistono i nomi per un solo motivo: perché a nessuno interessa più leggere.
Abbiamo voluto i dischi gratis, li abbiamo avuti. Abbiamo voluto biglietti più economici per gli sconosciuti, altresì detti emergenti/indie/alternativi (senza lamentarci dei supermegavip) e li abbiamo avuti. Abbiamo voluto frasi argute, poche righe, formati per smartphone, articoli che durassero bene per una cagata e li abbiamo avuti.
Non è peggiorata la musica o la critica in Italia: siamo peggiorati noi. Manca la curiosità di sapere cosa c’è dietro l’idea artistica, dietro il fascino misterico della creazione musicale. E mancando questa, mancando la voglia di conoscere, viene a mancare il fondamento base del buon critico: la conoscenza, lo studio.
Perché? Perché se è facile aprire un blog o un sito, è difficile fargli avere quell’autorevolezza che è il fondamento del suo successo. E per far questo serve materiale, serve chi scriva. Ma abbiamo voluto il mondo e l’abbiamo voluto gratis (sembra una frase di un possibile Jim Morrison del nuovo millennio).
Autorialità. Scrivo perché posso, perché voglio, non perché ho qualcosa da dire.
E su questo la colpa è di tutti noi che abbiamo aperto un blog, un sito o un giornale. Abbiamo alzato verso le stelle l’asticella della mediocrità senza dare mai a nessuno il buon esempio. Perché non abbiamo mai avuto un buon esempio da dare.
Leggiamo cose banali e tristi non perché la musica lo sia, non perché “le webzine imitano i giornali”, o perché “la carta stampata è morta” o perché scrivere recensioni non valga più nulla.
Leggiamo cose brutte perché pensiamo che le recensioni non servano più a nulla. Perché non c’è un investimento di tempo e curiosità nei confronti di un prodotto musicale che siamo condizionati ad assimilare in tempi troppo rapidi e a digerire e espellere, ricordandoci di usare lo scopettone, nel giro di qualche ora.
Intendiamoci: le persone sono sempre state perlopiù pigre, svogliate, mediocri e disattente. È solo che ora ha vinto la massa, perché hanno vinto i mass media. Ed Internet è il principe dei media. È l’imperatore di un mondo che ti fa credere di avere infinite possibilità e invece ti rende solo un rumore di fondo. La tua opinione non è interessante perché tu non sei interessante e non ti accorgi di non esserlo.
Per saper capire la musica, bisognerebbe ascoltare. Per saper scrivere di musica, bisognerebbe prima leggere, e tanto. Poi, come ogni cosa, sbagliando si impara, nessun problema. Basta che non vi ingozziate di tutto indiscriminatamente.
Riccardo De Stefano
Riassumendo, “LA CRITICA MUSICALE FA SCHIFO” (sic) perché:
– le webzine assecondano il vizio popolare della lettura distratta;
– le webzine sono in realtà blog gestite da gente che non sa nulla di ciò di cui scrive, o che (al meno peggio) sbaglia approccio nel farlo.
Mi permetto di aggiungere, allargando un po’ il campo: il giornalismo online fa schifo perché a tutt’oggi ci si permette di scrivere titoloni del genere per buttar giù due idee in croce che perfino mia nonna considererebbe passatelle. Visto che il calendario segna il 2015 (e non il 2005), non sarebbe più opportuno smettere di abbaiare ai fantasmi telematici che preoccupavano le redazioni dei giornali cartacei già dieci-quindici anni fa? Su, dai, che il mondo (e sopratutto il mondo telematico) pone sfide che richiedono risposte un filino più solide di questo pensierino. Oppure vogliamo parlare di quanto era bello il vinile e quanto è brutto l’mp3? (Ops, non vorrei mi fosse sfuggita un’idea originalissima per un altro grande pezzo di denuncia su Exitwell!)
(sono Riccardo De Stefano) La tua risposta è illuminante, perché si basa sullo stesso vizio formale che tento di evidenziare. Le webzine non sono il soggetto dell’azione, ma l’oggetto dell’azione delle persone. Le “webzine” non esistono come entità a se stanti, ma sono il frutto della volontà di chi ci opera. Le webzine quindi non “assecondano” nulla, ma sono figlie di una cattiva, se non inesistente, propensione alla lettura. Non sono le webzine (o il web in misura più larga) ad aver abbassato il raggio di azione o aver abbassato l’attenzione generale delle persone, ma sono il naturale riflesso della mancanza di tale attenzione da parte delle persone. Altro esempio: “Facebook fa schifo”, si sente spesso dire. Ma facebook NON È qualcosa a sé, ma un contenitore di persone. Se “facebook fa schifo” è perché le persone fanno schifo. Le webzine assecondano soltanto la necessità di generare contenuti per una massa, che naturalmente ha un interesse nullo, e generano di conseguenza contenuti nulli. Il dramma vero è che l’autorialità perde peso in favore dei contenuti strappalink che hanno un livello di informazione inesistente. Il problema si riflette perciò ANCHE nei cartacei, perché la perdita di autorialità genera non-autori e le riviste di oggi (compresa exitwell e compreso me come autore) si basano su una generazione che ha completamente perso l’interesse a leggere (e quindi a capire) un testo, e includo anche la musica in questi “sovratesti”. Non si può accusare il web perché il web non esiste, è una “rete” di relazioni tra persone che non sanno di non aver nulla da dire.
La questione si potrebbe riassumere dicendo così: “chi ha detto che si può fare critica senza aver studiato? Quante persone hanno studiato questi argomenti? Quante persone sanno esprimere questi commenti e se non sono in grado, perché non sono in grado”. Come vedi hai mancato completamente il punto della faccenda. Ma se ne può parlare.
Domanda a riguardo: Le webzine musicali non potrebbero essere nateper l’urgenza di condividere opere e materiali che nessun’altra testata pubblica? Oppure, tra le testate più conosciute c’èun appiattimento di valori delle opere recensite, dunque, non si riesce più a scegliere che opera ascoltare. Non vorrei sentirmi dire che è il soggetto che deve scegliere, visto che per decenni ci si è basati sulle riviste per la scelta di un disco. In più, aggiungo, l’età dei recensori si è alzata ,e vivere il momento musicale attuale, penso sia più vicino ai giovani; c’è un cambio generazionale e bisogna ammetterlo, non possono sempre stare i soliti sul piedistallo. Anche i social-media hanno aggravato la situazione delle riviste cartacee, ma questo è i mondo attuale e bisogna vivere di conseguenza, non bisogna nemmeno fare di tutta l’erba un fascio. Bell’articolo il suo, bei ragionamenti. Saluti Gianluca.
Sicuramente le webzine sono nate per questa urgenza e il web ha garantito una rottura dei vincoli comunicativi dell’ “antico regime” pre-internet. il movimento è emerso dal basso, ma senza confrontarsi con l’alto (la vecchia stampa specializzata) che è semplicemente collassata e ha dovuto ripartire dalle macerie. questo appiattimento ha portato un nugolo di persone e personalità che si sono affacciate in questo mondo nuovo. Ma va benissimo, ci mancherebbe. Diciamo che il darwinismo una volta si basava sulla meritocrazia, cioè facevi “carriera” se avevi qualcosa in più degli altri, mentre adesso fa ridere anche solo parlare di carriera. Il pubblico specializzato si è confuso con il pubblico attento, svogliato e pigro, rinchiudendosi in nicchie o sparendo nella massa. Come fa quindi un nuovo talento critico ad emergere se le persone leggono una informazione che tanto sul web quanto sui cartacei va abbassandosi sempre più verso la “velocità dell’informazione” e la rapidità die tempi attuali? se il pubblico non ha più, o meglio non vuole più avere, una opinione critica, una curiosità sincera nel conoscere e ricercare opinioni fondanti, con alla base un pensiero critico, dove li troviamo i nostri nuovi lester bangs, mark prindle e perfino i nuovi scaruffi (criticabilissimo, ma comunque un vero critico musicale)? Avere tantissima critica mediocre che si spande a macchia d’olio significa formare (ed essere noi stessi) una nuova generazione che non conosce la propria mediocrità, e non conoscendola non può migliorarsi, perché alla fine “è così che vanno le cose”. Ma addirittura qui ci si domanda che ruolo abbia la critica, il che ti fa capire quanto siamo messi male, come se i critici fossero persone che “decidono” cose o che non hanno alcun valore perché “nessuno mi può dire quel che è bello o brutto”. Insomma, bisognerebbe avere una diversa percezione della materia. non trovi?
Purtroppo le persone, così come la musica, non si possono cambiare. Se oggi uno ascolta il disco di X perché ne parlano tutti e dopo un paio di giorni ascolta il disco di Y perché ugualmente discusso e si dimentica completamente di X, è colpa dell’iper-velocità di potenziali ascolti. Quindi si deve eliminare il download da internet? Ma le varie piattaforme come Spotify danno le stesse potenzialità, legalmente! Secondo me non ci saranno più gli eroi della “critica”, come son mancati da decenni quelli dell’arte visiva, da qualche lustro quelli musicali, ora tutta la critica artistica e non, ha il suo momento di buio. Quando dai la possibilità a tutti di fare una cosa, questa perde di valore
nella mia vita avrei voluto essere un critico musicale,ma per come ascolto musica e come sono introspettivo non oserei mai condividere ciò che sento con un pubblico vasto,mi rendo conto che è proprio al pubblico che manca questa voglia di informarsi…
e poi non ne ho le competenze per farlo
se chiunque davvero può far critica nessuno ci riesce a tal punto da essere una degna figura di riferimento
io credo che in fin dei conti però ciò che rovina la critica,di qualunque tipo sia e qui ci metto in mezzo anche il giornalismo
è la rincorsa al sensazionalismo e al dire qualsiasi cosa,non importa di cosa si tratti basta che si legga
è quella la vera piaga,le passioni si creano e si fomentano
se non ho nulla da dire ma voglio dire qualcosa ad ogni costo non faccio un buon lavoro
Caro Riccardo,
la critica musicale che fa schifo è quella fatta da chi non conosce la musica.
Leggiti a riguardo il libro “La critica musicale” (Carocci editore), uscito da poco.
Troverai molti punti in comune con i tuoi. Ma il fatto non è tanto che sono cambiati i critici, è che – tu fai i conti con la musica leggera, quindi limiti l’ambito – i critici pop (salvo rarissime eccezioni) di musica non ci hanno mai capito nulla.
Ciao,
fra
Grazie mille per la segnalazione, reperirò il libro e lo leggerò con molto gusto!
Che la musica sia un “prodotto” lo stai dicendo tu adesso; i critici non hanno mai evidenziato questo aspetto. I critici hanno sempre insistito sulla sacralità della musica, anzi dell’arte in generale, epigoni di una filosofia stramaledetta che risale alla Antica Grecia: l’arte è un archetipo, con dei canoni estetici imprescindibili, e una forma costruttiva di tipo pitagorico; ne è prova il fatto che esistono libri e trattati antichi sulla composizione musicale, sull’armonia, sui rapporti tra le varie armonie, sul contrappunto, etc. . Nessuno ha enfatizzato mai abbastanza il fatto che l’arte possa essere anche un prodotto, senza che ciò la sminuisca. Ora, per qualche motivo è successo che oggi sono tutti musicisti, tutti artisti, scrittori, politologi, strateghi militari, economisti, matematici; tutti sanno tutto, e lo sanno bene; c’è una generalizzata tendenza all'”anch’io posso farlo”; e questa, piaccia oppure non, è una conseguenza della democrazia. Non solo sono tutti bravi; se ci parli un po’, scopri anche che sono tutti fondamentalisti. Questi atteggiamenti esistono grazie a criteri di valutazione manichei e quantitativi, che fondano l’idea che l’arte sia per tutti e possa essere condivisa da tutti, e che sono invece quelli che uccidono l’arte, e che derivano anche un po’ dal vostro lavoro pregresso, cari critici. Perché in primis siete stati voi a incoraggiare le definizioni. E le definizioni fomentano il fondamentalismo: questo è blues, quello è rock, quell’altro è glam e quell’altro ancora è metal. Poi c’è quello sopravvalutato, quello commerciale, quello tecnico, etc. . Invece la musica è da sempre “solo” musica. Ma non è vero che la musica è la stessa di sempre, caro De Stefano; ora è cambiata, ed è facile dire come: è morta. Oggi abbiamo pianisti eccelsi, cantori dalle cinque ottave, chitarristi senza più segreti da scoprire sul loro strumento, batteristi che gettano in aria le bacchette e le ripigliano a tempo di musica; ma la musica è morta. Forse i cantanti non interagiscono con la gente nel modo giusto, forse la gente non è più “interagibile”, o forse quelli veri se ne stanno a casa sotto le coperte perché sono oberati da quelli che “anch’io posso farlo”. Non lo so, il motivo. Ma il funerale c’è già stato da un pezzo. Amen
Belo
Davvero un articolo pieno di spunti ti interessanti! Su alcune cose però sono in leggero disaccordo, per cui vorrei discuterne se ti interessa.
Non credo che la percezione generale delle riviste specializzate sia rimasta la stessa di dieci, venti, trent’anni fa. Non tutti quelli che compravano le riviste lo facevano per il gusto di immergersi nella ricerca, ma perché era un modo come un altro di scoprire nuova musica. Oggi per quel tipo di lettori ci sono gli algoritmi di YouTube, Spotify, Amazon e Apple music, che li hanno liberati dalle strette maglie della critica, anche perché probabilmente da quelle recensioni cercavano solo conferme e non altro. Gli altri, ovvero coloro che nelle riviste ci vedevano una possibilità di studio e approfondimento, ci sono ancora ma si sono rivelati essere pochi.
Inoltre secondo me non manca la curiosità di sapere, semmai sono cambiati i medium di riferimento e le grammatiche. Di questo ne ho scritto poco tempo fa qua (https://www.altrevelocita.it/inutilita-della-critica-nellera-digitale/), contaminando la riflessione sulla crisi della critica musicale con quella cinematografica, teatrale e videoludica. Hai ragione a dire che noi blogger in certi casi abbiamo abbassato le aspettative del lettore, mi riferisco sopratutto a quei casi in cui abbiamo copiato il vecchio stile da rivista senza averne la specializzazione e il numero di ascolti (perché, probabilmente, viviamo d’altro e per questo non possiamo essere critici sul serio), ma è altrettanto vero che le riviste non vengono considerate dalle nuove generazioni non perché queste siano ignoranti, ma perché sono cambiate le grammatiche di riferimento. Ci sono video di approfondimento sul montaggio analitico da un’ora che vengono seguiti dall’inizio alla fine persino dai quattordicenni, forse è arrivato il momento di mettere da parte la carta stampata per cominciare ad immergersi in nuovi e più consoni mezzi di comunicazione.
È altrettanto vero che questo è un periodo di passaggio traumatico, sul web è molto difficile vedere realtà ad “altre velocità”, che preferiscano l’approfondimento anche viscerale ai 140 caratteri, e molti di quelli che stanno anche un’ora a parlare del dato argomento spesso lo fanno senza una conoscenza della terminologia di base, senza conoscenza tecnica, senza conoscenza storica e quindi contestuale. Però esistono esempi virtuosi, purtroppo per ora perlopiù anglosassoni.
Condivido l’esortazione finale a leggere prima di scrivere, perché non lo si dice mai abbastanza. Leggere non solo per saper scrivere, leggere per imparare a contestualizzare, mappare la realtà attorno a noi, viverla non esclusivamente con i nostri occhi.
Facile dare la colpa ai Mass media. Semmai è la critica – e con critica intendo i critici, o presunti tali – a non essersi adeguata ai tempi.