“Supernova”, perché come le stelle che esplodono e i cui frammenti si riassemblano in nuovi corpi celesti, anche il secondo lavoro di CAPVTO, alter-ego elettronico di Valeria Caputo, è nato dalle session del precedente Migratory Birds, l’esordio che l’aveva fatta conoscere (e piacere) ai più.
Insomma, fosse stato solo pulviscolo lei avrebbe tranquillamente potuto attendere che si dissolvesse, ma invece da quell’esplosione di tre anni fa sono scaturiti massi così enormi di ispirazione raggrumata che era impossibile ignorarli.
E così eccoci a parlare di quest’album che, a dispetto del fatto di essere nato da una costola del precedente, si distanzia parecchio da ciò che pensavamo di doverci aspettare. A partire dall’afflato elettronico che ha portato la cantautrice pugliese di origine ma emiliano-romagnola d’adozione a cambiarsi il nome, come se si trattasse di un nuovo progetto. Prima c’era Valeria Caputo, adesso c’è CAPVTO. Prima c’era un artista capace di tirare fuori un capolavoro folk disarmante come “December Sun”; adesso c’è una mutante dark che si insinua e si camuffa tra le pieghe di un flusso sonoro indistinto che permea sotto pelle ascolto dopo ascolto.
Oddio, in verità lei ha sempre quell’aria un po’ ribelle e forastica da PJ Harvey nostrana ma l’eclettismo dimostrato in questa seconda prova è tale da elevarla al rango di sperimentatrice. Qui la fanno da padroni synth e tastiere al servizio di un cantautorato rimasticato in chiave elettronica e ammantato di atmosfere cupe, notturne, ipnotiche, che nel tentare il salto oltre la forma canzone finisce molto più in là di quanto inizialmente preventivato. E gli ingredienti non mancano, laddove sax “bowieani” scorazzano su tappeti sonori noir-industrial (“Blindfolded”); dub, trip-hop e indietronica sono fusi insieme in soluzioni alcaliniche ad alto tasso Notwsit/Radiohead (“Girlflower”) e ritmi possenti fanno da traino a momenti dal comunque spiccato senso melodico (“Blooming”, scritta a quattro mani con il musicista e compositore tiburtino Christian Mastroianni aka Chris Yan). Ma ci sono anche episodi più lenti dove il ritmo è solo accennato e prevale l’interpretazione canora (“Living In A Cloud”). O ancora, dove si tentano soluzioni naif con piani giocattolo (la title-track) o più sofisticate con violoncelli e simil-cornamuse (“The River”). Perché moderno va bene, ma le cose destinate a diventare grandi sono quelle che profumano di tradizione.