Si torna alla terra e alle origini con il suono e con le intenzioni elettriche di questo nuovo disco di Federico Poggipollini. Artista che in anni di grandissima carriera ha metabolizzato e fatto suo una sua personalissima dimensione di suono, cercando di restituire allo strumento una posizione nel sociale più che nella mera tecnica per sfamare gli amanti della scena, una vera e propria identità popolare aggiungerei anche. Il rock non è solo un genere musicale quindi ma anche e soprattutto un modo di stare al mondo e Fede Poggipollini non è solo un musicista ma anche un cantautore, uno che la musica la scrive e la vive sulla propria pelle… dunque allo strumento viene chiesto di portare con se anche la responsabilità di narrare e di tessere testimonianze. Ecco il vero valore aggiunto di un disco che prettamente potremmo definire di “cover”. Ma avremmo sbagliato subito tutto. Non sono semplici “cover”. Sono personalissimi omaggi, omaggi fatti a belle canzoni non sempre scelte dal cestone di quelle famose, canzoni anche poco conosciute a dir la verità ma che mostrano una identità umana e caratteriale del tutto pesante sul piano sociale e storico, identità del tutto figlia e sorella di Federico Poggipollini che le ha fatte sue… quasi che ciascun di queste Canzoni rubate diventino davvero canzoni della sua vita, quasi scritte e pensate da lui e non da altri. Quasi che riacquistino una nuova faccia, un nuovo lasciapassare…
E tra questi furti arriva con grandissima coerenza il brano inedito “Deleay” che inevitabilmente siede comodo e padrone della scena dentro tutto il resto per quanto faccia mostra di un lato pop che sinceramente poco si addice a Capitan Fede e che lui stesso accarezza solo per darci un contentino ma che mai coltiva a pieno: mai permetterà che un suo brano alla fin della fiera venga etichettato come “pop”. E poi ci sono composizioni strumentali: perché questo disco ha anche una terza dimensione ed è il suono sospeso, etereo, desertico delle chitarre, arido di polvere come fossero code piccolissime dal sapore inevitabilmente blues, suggestive di tramonti lontani, di echi arcaici, di terre mai raggiunte nel west, di apocalissi nuove che forse stiamo ancora attendendo. Canzoni rubate è anche questo, è un disco che in se contiene pure piccolissime gemme di preziosi andanti strumentali di chitarre (obviously) che forse sono state improvvisazioni di produzione troppo belle da tener lontane da questi “furti”, che forse – come piace vedere a me – in fondo sono la vera essenza di questo disco come del modo di pensare alla musica e alla chitarra che ha un maestro come Federico Poggipollini.
A chiusa mi vien da chiedere: Maestro ma in tutto questo disco, alla fine, che ci dice di una rapidissima escursione fuori pista battuta che è “Rise”? Siamo nel salone da ballo anni ’30 con questo ragtime che suona da una big band di grande bop… e certamente si rende degna di presentarci “Vincent Price“ della Formula 3. Ma è il modo che incuriosisce e non poco…
Che bel furto, che bel sapore di terra, che bell’atmosfera di blues, di anni ’90, di musica suonata per davvero… Canzoni rubate è un disco di un uomo artista dentro la storia fatta di uomini e di canzoni.