– di Martina Zaralli –
Numeri da capogiro, traguardi incredibili. Dietro tantissimi successi della musica italiana e internazionale si incontra il nome di Michele Canova Iorfida, che da Jovanotti a Tiziano Ferro, da Eros Ramazzotti a Giorgia, da Alanis Morissette ad Alicia Keys – per fare alcuni esempi – ha lasciato un segno indelebile nell’industria discografica. Dopo molti anni dietro le quinte, il produttore da 7 dischi di diamante e più di 150 dischi di platino, 3 miliardi di visualizzazioni su YouTube e 2 miliardi di streaming su Spotify, ha deciso di mettersi in gioco in prima persona con il suo progetto da artista, CanovA, del quale abbiamo già conosciuti i singoli “Sorpresa”, in collaborazione con Nayt e “Benedetto l’inferno”, con Gianna Nannini e Rosa Chemical. Alla base di questa nuova avventura, neanche a dirlo, c’è sempre la passione spontanea e inesauribile per la musica.
Dopo tanti anni dietro le quinte, ha iniziato un percorso artistico che la vede sempre più protagonista: come e perché è avvenuto questo passaggio?
È stato un passaggio veramente naturale. Il Covid ha aiutato molto, nel senso che ha costretto molte realtà di produzione, compreso me, a creare degli studi di registrazione dentro casa: io ad esempio ho lavorato moltissimo da remoto, ho scritto canzoni e mi sono affacciato di più alla realtà dei social. Sono stato per 25 anni dietro le quinte – e mi è sempre piaciuto – ma il fatto di essere forzatamente chiusi in un luogo mi ha portato ad aprirmi verso una comunità di persone con la quale condivido le stesse passioni e lo stesso interesse verso la produzione musicale (anche in maniera abbastanza tecnica). A partire da aprile 2020, ho iniziato a dare vita a due appuntamenti: Canova Speed Date, ogni martedì su Twitch, in cui faccio vedere come sono stati realizzati alcuni brani famosi che ho prodotto – come quelli per Giorgia, Jovanotti,
Tiziano Ferro – mostrando traccia per traccia come hanno suonato i musicisti, come ho suonato io e quindi come si è arrivati a comporre quel successo, e Canova Ascolta, ogni giovedì come Instagram Live, in cui sono un virtual A&R e ascolto le canzoni che mi propongono lasciando un feedback artistico, spesso anche molto duro.
Una cosa ha tirato l’altra: mi è piaciuto questo mio lato educational e ho poi accettato di far parte di Amici 2020 di Maria De Filippi come produttore (da remoto), un’esperienza che ho ripetuto anche per l’edizione del 2021. Per trent’anni ho seguito sempre i progetti dall’inizio alla fine, dal pezzo chitarra e voce ai singoli elementi, dal missaggio alla produzione, fino alla presentazione a una casa discografica: mi sono detto quindi che se lavoro su dei featuring con cantanti mettendoci però anche il mio nome artistico cambia veramente ben poco. Mi sono messo in gioco.
L’ultimo pezzo in ordine di arrivo per il progetto CanovA è “Benedetto l’inferno”, con Gianna Nannini e Rosa Chemical. Come è nato il pezzo?
Con Gianna Nannini lavoro dal 2006, quando è nata l’idea di “Benedetto l’inferno”, stavo curando la produzione di “Diamante”, la canzone in cui duetta con Francesco De Gregori (che è anche l’autore del testo della canzone). Nel frattempo, mettevo giù le idee per il nuovo disco di Rosa Chemical: mi è scattato subito qualcosa in testa su questa collaborazione. Pensavo già da un anno a un mio progetto artistico, stava per uscire infatti “Sorpresa”, allora ho fatto ascoltare “Polka” di Rosa Chemical a Gianna Nannini, la quale è stata da subito colpita dal personaggio e dal pezzo. Ho chiesto a lui se avesse voglia di collaborare e appena ha sentito il nome della Nannini è praticamente impazzito! Ci siamo trovati con anche tre miei autori per scrivere il pezzo e Gianna ha detto: “se facciamo una cosa insieme deve essere estrema, cioè devono esserci due estremi, tipo benedetto l’inferno”. Quella frase è diventata il titolo, gli autori sono stati bravissimi nel catturare l’energia tra i due e in quattro, o forse quattro ore e mezza il brano era pronto.
Una produzione velocissima…
Al giorno d’oggi è questo il tempo che ci si mette per scrivere le canzoni. Forse in Italia è arrivato un po’ dopo, ma io da quando vivo a Los Angeles, dal 2012, mi misuro col concetto di songwriting session: dalle 12 – perché prima c’è troppo traffico e si rischia di non arrivare in studio per tempo – alle 17,30/18 si scrivono canzoni. Alcuni artisti molto bravi riescono a fare anche due o tre sessioni al giorno di scrittura! In pochissimo tempo, se prendiamo ad esempio un’unica sessione, il produttore crea una base musicale su cui un topliner e un lyrist si immaginano e scrivono una melodia e un testo. Il modello di songwriting session e l’unione di diversi talenti nasce anche per il bisogno di stare al passo con la velocità del digitale, che chiede sempre più musica in meno tempo.
Con una tecnologia che permette in astratto a tutti l’accesso alla creatività, soffre un po’ il consolidamento, la riconoscibilità, della cifra stilistica di un autore…
Il rovescio della medaglia è infatti la creazione di un rumore bianco o rumore rosa. Un milione di uscite alla settimana vuol dire nessuna uscita, così come se hai un abbonamento Premium a un DSP e quindi hai accesso a tutto il repertorio musicale, praticamente non ascolti niente. Nel momento in cui hai tutto è difficile innamorarsi di singole cose. C’è anche un discorso artistico da fare: proprio perché il sistema musicale ti chiede un’uscita ogni cinque settimane è ovvio che lo scopo della musica diventa puro entertainment, e di conseguenza sarà sempre più difficile avere un concept album tipo quello dei Pink Floyd. Ma è il segno dei tempi. Per eliminare però il rumore bianco o il rumore rosa servono dei bravi curatori, cioè persone che sono a capo delle piattaforme di streaming: il ruolo che una volta era ricoperto dal programmatore radiofonico è adesso ricoperto dal curator che si occupa della playlist ufficiale della piattaforma, sottolineando le uscite più importanti della settimana. La figura del curator è davvero cruciale: ci sarebbe da investire tantissimo, soprattutto in paesi come l’Italia dove le tendenze arrivano un po’ dopo.
C’è forse – se vogliamo – una sorta di esitazione verso il curator: forse c’è la paura di dover rientrare in logiche clientelari, ma sarebbe bello conoscere la persona che ha curato una playlist. Sarebbe bello conoscere le persone, anche persone di spicco nel mondo della musica, che per i vari DSP compongono una playlist secondo i loro gusti.
Secondo lei, che caratteristiche deve avere un brano per essere definito una hit?
Le caratteristiche cambiano di cinque anni in cinque anni, perché anche il metodo di distribuzione musicale cambia frequentemente. Il mercato dei CD cinque anni fa, in Italia, ad esempio, era ancora molto florido, poi però il consumo si è spostato totalmente verso lo streaming: per la vastità del repertorio, e anche per l’ascolto distratto, un brano diventa una hit quando colpisce l’attenzione nei primi sette secondi circa, con un testo provocatorio, con una voce con un suono diversi dal solito, con un arrangiamento e una produzione che ti catturano subito perché ad esempio ascolti un piano solista e poi subito dopo una ritmica violentissima. È necessaria un’idea vincente, altrimenti è molto facile skippare, e skippare non genera soldi. Il pezzo deve suonare per almeno 30 o 40 secondi – dipende dai DSP – per parlare di fattore economico. È venuto meno l’acquisto nei negozi fisici, dove spesso compravi anche altra musica perché magari incuriosito dalla copertina, praticamente compravi qualcosa in più che non conoscevi: ecco, quel gesto creava un indotto. Il curiosare di oggi, dentro una playlist e non dentro un negozio, non genera soldi. Detto questo, nel 2022 le major fatturano più del periodo pre-Napster (1999): non gli artisti o gli autori, ma le case discografiche. In America si stanno già muovendo per dare ai songwriter quello che meritano, con una legge che triplicherà i loro guadagni: un aumento importante che muove anche gli investimenti. Sempre in America infatti si stanno creando delle nuove aggregazioni di publishing in cui grandi fondi di investimento comprano a cifre incredibili cataloghi di artisti molto giovani, in attesa di veder crescerne gli introiti.
Sempre più artisti si affidano alla creatività dei produttori: il produttore sta diventando quindi il vero artista?
Secondo me, l’artista che si affida al produttore è sempre un problema, perché a quel punto il produttore fa il suo album. Quando mi capita, è una situazione che non amo tantissimo perché poi alla fine c’è il rischio di fare sempre lo stesso disco, cioè il disco che piace a me. Mi piace invece il confronto con l’artista, anche acceso, per capire davvero cosa gli piace, creando poi un’estetica dove ci sono i gusti di entrambi, ma il 90% del gusto è sicuramente dell’artista. Detto questo, però, è sempre più il momento dei songwriter e dei produttori per un fattore puramente di lotteria: cioè il produttore ha la fortuna di poter lavorare in un anno con 10 o 20 artisti, quindi ci sono buone probabilità che più pezzi funzionino. In America comunque si dice che: “L’artista è morto”, perché con i ritmi delle uscite – una ogni cinque settimane – e magari senza un team di supporto nella scrittura, è praticamente impossibile mantenere per tutte i pezzi lo stesso livello da hit. Per un produttore è invece più semplice mantenere lo stesso livello da hit perché lavora con molti artisti. Cioè tutti danno sempre il massimo, ma per una questione di probabilità, il produttore che lavora con artisti diversi, ha più facilità di far conoscere il proprio nome. Mi ricorderò sempre una frase di Claudio Cecchetto: “Tutti si ricordano dei successi, nessuno degli insuccessi”, ed è vero. Su venti canzoni prodotte in un anno, le persone ricorderanno le due più famose.
Vive a Los Angeles da 10 anni, come è vista la musica italiana all’estero?
Non è vista. Nessuno sa niente, ma se vogliamo anche giustamente e logicamente perché la lingua italiana è troppo distante. I Måneskin hanno però totalmente ribaltato questa situazione: sentirli in una radio pop (qui in America le radio sono molto settoriali) fa un certo effetto. È bello. Successe anche con Laura Pausini, Eros Ramazzotti e Tiziano Ferro, ma più con una spinta verso la cultura latina, i Måneskin sono entrati in quella americana.
C’è qualcosa della musica italiana che andrebbe cambiata, o migliorata, per creare una convergenza verso le sonorità internazionali, oppure vince la territorialità?
È molto difficile. Quello che è successo col reggaeton potrebbe succedere con la musica italiana tra qualche anno. C’è ancora un po’ di resistenza verso il raggaeton, ma è un fenomeno diventato fortissimo in America. Servirebbe forse una musica italiana con più identità, cioè con un’intera scena che crea gli stessi suoni, ma la vedo comunque molto dura. Gli stessi Måneskin, a mio modo di vedere, sono entrati in America per un insieme di cose: per Sanremo, l’Eurovision, per la loro forza estetica, per l’utilizzo dei social, quindi non solo per la musica. Mi resta difficile immaginare una scena italiana internazionale, però posso anche dire, secondo la mia opinione da ascoltatore, che se Mahmood e Blanco vincessero quest’anno il Festival di Sanremo potrebbero giocarsela anche loro.
Come proseguirà il suo 2022 lavorativamente parlando?
Il 2022 proseguirà sicuramente con altri singoli, che cercherò di pubblicare ogni due mesi, mantenendo un po’ l’abbinamento di artisti che non ti immagineresti mai di vedere insieme e scrivendo delle belle canzoni per loro e per il mio progetto, fino a un album con cui racchiuderò tutta la nuova avventura di CanovA.