– di Chiara Bravo –
Già dal titolo, i Campos convocano gli estremi della loro poetica, gli stessi entro cui si sviluppa tutto il libro degli eventi del Mondo, l’umano e la natura. Spronata da un linguaggio terso, un’umanità fragile e storta si muove in paesaggi elettroacustici complessi, animando ballate kafkiane (Schiena di bue), folk boniveriani dai ritmi tribali (Qualcosa cambierà, Take me home) e impasti magistrali di rumori e melodie (Senza di te).
Il trio pisano gira fra le mani un caleidoscopio, dove luccicano vetrini colorati inquietanti e cupi, con i quali danno forma a un’autobiografia impersonale in cui l’io non compare mai, ma vive della luce riflessa da quel tu a cui sempre si rivolgono.
Una seconda persona dipendente dalle sue metamorfosi, segnata da inizi che sono solo seguiti, mutilata da relazioni finite e da persone lontane. Umani, vento e piante immerge anche la nostra esistenza nel flusso dei cambiamenti che non si sa bene come, sommandosi, vanno a formare la nostra vita, e alla fine, in qualche modo, a salvarla.