L’Italia è sempre stato un Paese periferico e marginale. Questo è vero sicuramente per la musica, almeno. Forse l’unico periodo in cui siamo riusciti a imporci in un mercato con una proposta seria e credibile è stato quello a cavallo dei primi anni ’70 del secolo scorso, quando una nascente (e presto morente) scena musicale di origine albionica capitalizzò l’attenzione musicale europea. Il cosiddetto rock progressive (o più semplicemente prog) aveva toccato i cuori anche di tanti giovani italiani. Poi, la musica ha preso un altro corso e tanti di quei gruppi sono spariti come dinosauri, abitanti di un’epoca lontana spesso dimenticata e incomprensibilmente disprezzata a prescindere. Eppure in Italia quel barlume progressivo non s’è mai spento, ha continuato a brillare, perpetuando una tradizione che a tutt’oggi, seppure a fatica, riesce ad emergere dal rumore di fondo. Ultimi-ma-non-ultimi araldi di quella pulsione, più che quel genere, ecco spuntare qualche mese fa i Camelias Garden. Ultimi per mere questioni temporali, s’intende. Questo gruppo di ventenni romani sembra sfidare le leggi del tempo e del mercato: si dichiarano post–progressive, a volte indie–prog, qualcuno ci piazza l’aggettivo acoustic, spunta un folk qui e là. Certo, sicuramente fa strano vederli sul palco, dove dominano la scena le chitarre acustiche e i sintetizzatori Moog; gli ultimi anni ci hanno insozzato le orecchie con le solite banali formazioni noise, post–grunge e via dicendo, band che spesso mimetizzano le proprie mancanze sotto il rumore del fuzz o che rinunciano alla melodia per mettere bene in mostra “le parole” (qualcuno gli dica che no, i loro testi non sono interessanti). I Camelias Garden invece non si nascondono né si vergognano di creare e cantare canzoni. Belle canzoni.
Prendete ad esempio il loro primo album, You have a chance, ascoltatelo anche una sola volta e ditemi se non è un album splendido. Non riuscirete ad appigliarvi a nessun cavillo, nessuna scusa. Il delicato arpeggio iniziale di “Some stories” ci culla e ci introduce nel mondo luminoso dei Camelias Garden, attraverso il delizioso tema di flauto, che percorre poi tutto l’album. Un album che non rinnega la melodia in favore di virtuosismi sterili e che fa anzi degli splendidi incastri vocali il suo punto di forza, la colonna portante del sound acustico e sospeso dell’album. E se si può chiudere un occhio sul tema di “Dance of the sun”, che volenti o nolenti ci riporta alla mente memorie progressive italiane anni ‘70 – ma che non ha nulla di offensivo, si badi bene – ci si può accorgere dell’incredibile talento della formazione capitanata da Valerio Smordoni; “The remark” e tanto più “The withered throne” sono perfette sintesi di buon gusto ed equilibrio: dal vago sapore fantasy la prima, tanto più perché incastrata tra le due parti di “Dance of the sun”, e invece più moderna e “sbarazzina” la seconda, con quel piccolo ukulele a strappare un sorriso e quei complessi giochi d’armonia che non t’aspetti nel ritornello a catturare l’attenzione. Niente sembra lasciato al caso: le variazioni strumentali della seconda parte del brano confluiscono in “We all stand in our broken jars”, in un flusso di chitarre arpeggiate che arrivano come carezze, necessaria introduzione per la prima elettrica che fa capolino nel disco, in un crescendo che esplode come un ruggito. E non ci si può non innamorare dell’eccezionale“‘Till the morning comes”, aperta dal titanico coro iniziale e struggente nella sua dolce malinconia o di “Clumsy grace”, un piccolo idillio immerso in una rarefatta atmosfera luminosa e mattutina, di una bellezza sacrale.
Il disco regge bene nonostante la lunghezza e la cospicua presenza di strumentali, di cui l’unico trascurabile è “A safe haven”, che stenta a colpire l’ascoltatore.
Questo anche grazie al valore della band: come nella migliore tradizione progressive, i musicisti sono tutti eccezionali. Valerio Smordoni è un talentuoso autore, cantante e polistrumentista, capace di passare con grazia da un assolo sul fidato Moog a un arpeggio acustico sulla chitarra, cantando gli agrodolci testi dell’album con voce delicata ma decisa, forte e vellutata al tempo stesso. Il grande lavoro del frontman non potrebbe reggere senza Manolo D’Antonio, che si prodiga tra chitarre elettriche e acustiche, armonizzando inoltre le melodie vocali del compagno; grande tocco sulla chitarra e mai una nota fuori posto, segno di buon gusto e tecnica. Marco Avallone al basso sa inserirsi poi tra le linee, riuscendo a dare leggerezza e dinamismo ai brani; inoltre, i suoi interventi di pedal bass synth sono memorabili e aggiungono quel tono epico e lirico ai fraseggi strumentali dei compagni. Ultimo acquisto nelle file della band è Walter Palombi, pirotecnico batterista di formazione prog metal ma eccezionale nel gestire le dinamiche e i forte-piano della band. Ad aiutare Valerio nel lavoro alle tastiere si sono succeduti diversi musicisti di cui vogliamo ricordare Marco Chiappini (intento adesso a realizzare il suo progetto solista Gandalf’s project) e Gian Marco La Serra, attualmente impegnato nel lavoro live con la band.
Comunque, che sia una ballata adorabile ed indimenticabile come “Knight’s vow” o l’epica cavalcata strumentale di “Mellow days”, svecchiare un genere non è facile, anzi. Secondo me, i Camelias Garden riescono nell’intento. Ne abbiamo abbastanza delle solite gare a chi fa il riff più strano nel tempo più strano; che noia quei gruppi che devono essere “progressivi” a tutti i costi, e che suonano le stesse cose da quarant’anni a questa parte. Certo, è altrettanto vero che è quasi impossibile trovare una band scevra da qualsiasi influenza o reminiscenza, e per i Camelias Garden l’immagine più vicina che viene in mente sono i Genesis della formazione classica, con Peter Gabriel alla voce e alle maschere e Steve Hackett alla chitarra. Ma più per l’estetica del suono che altro, per quelle chitarre arpeggiate e le atmosfere sospese nel tempo, oltre per il taglio proprio del disco, la cui circolarità, con la ripresa di “Some stories” ricorda Selling England by the pound. Come suono si avvicina forse di più proprio all’Hackett solista, per l’intensità delle armonizzazioni vocali, o al new-prog di Neal Morse, per l’orecchiabilità quasi pop del disco. Ma non solo: c’è anche la freschezza dei Fleet Foxes in quelle voci e lo spessore di tanto post rock nei complessi intrecci strumentali. I Camelias Garden non scendono però a compromessi, proponendo idee fresche, in bilico tra il passato e il presente, in un melting pot unico a Roma. Viviamo in un panorama che sembra volersi sbarazzare del concetto di “ieri”, quando in realtà ruba sfacciatamente suoni e idee alle proposte di venti o trent’anni fa.
Molto più interessante la proposta della band romana, allora, che non rinnega niente e fa tesoro di tutto, con un orecchio verso chi è venuto prima e un occhio al futuro.
Riccardo De Stefano