di Francesca Ceccarelli
Un titolo “Mainstream” che risulta totalmente fuorviante. Calcutta, ai tempi Edoardo C., parte dalle strade di provincia pontine per arrivare dritto al cuore di chi ascolta canzoni, o meglio non-canzoni, vere. La realtà, le emozioni, la sofferenza, l’amore, la vita proprio così come la vedi: senza alterazioni, senza inutili giri di parole. E allora l’ascolto di Mainstream è un flusso, non solo di coscienza, ma di esperienza vissuta e raccontata in tutta semplicità. È un uomo, una donna, una persona stanca di combattere con sè stessa. C’è Roma, c’è “Milano”, c’è “Frosinone”: c’è la dimensione urbana in tutte le sue forme, in cui ci si ama, ci si lascia e si ricomincia a vivere. Dalle esibizioni nei vari club laziali Calcutta ha saputo assorbire l’energia, a volte anche solo in potenza, che la musica dal vivo possiede. È un album questo che non perde la struttura portante di questo artista che, supportato da una giovane ma capace etichetta come la Bomba Dischi, potrebbe avere la capacità di dare una nuova sferzata di energia al cantautorato italiano. Tracce che si rivelano dei piccoli quadri realisti, con un capo e una fine, toni crudi ma al tempo stesso carichi di senso. È ora di celebrare dunque il ritorno dell’essenziale: tra l’eco di Rino Gaetano e un mix azzardato Baustelle- Sergio Endrigo, Mainstream non è solo album di punta di questo fine 2015, è un insieme di tracce che si fa manifesto di una generazione: persa, tradita ma pronta a uno slancio e a un riscatto che solo la musica può dare.
di Riccardo De Stefano
Nella musica ci son cose che funzionano e che cose che no. Calcutta funziona: è buffo, alternativo, simpatico e se mai lo conoscessi, so che potrebbe diventare il mio migliore amico. Peccato che devo recensirne il disco, quindi. Già, perché in Mainstream c’è poco, appena sette tenui ballate in minore che si appigliano disperatamente all’etichetta “minimale” per giustificare una scrittura approssimativa ed elementare – tutti mid tempo, con un utilizzo di accordi e variazioni armonico-melodiche quasi mai al di là dei tasti bianchi del piano – più tre strumentali rasenti l’offensivo, accatastati nel tentativo di giustificare l’appellativo di “album” nonostante i 27 minuti complessivi. Fortuna che i dischi non si vendono più. Comunque Calcutta funziona: Mainstream è tutto una città, una nostalgia, un’approssimazione verso il basso – nell’intonazione vocale, nell’approccio Lo-fi – che nel triste panorama delle città invivibili italiane trova un’eco emotiva nei cuori dei giovani ragazzi che odiano il termine hipster, grazie alla sua esile poetica, velata dall’efficace ombra di un malinconico spleen urbano da flaneur decadente. Intendiamoci, Mainstream non è un disastro: il singolo “Cosa mi manchi a fare” e perlomeno “Frosinone” sono buone canzoni, ma sfumano nella ripetitività e nella poca elasticità dell’album. O, in altre parole, Mainstream è un brutto album di ottimi singoli. Fortuna per lui che a nessuno importi, perché Calcutta funziona