I Cafè Noir ricordano i Massimo Volume. Lo dico io prima che possiate farlo voi stessi. Se questo vi sembra un valido motivo per disinteressarvi, siete liberi di passare oltre. Se invece volete proseguire nella lettura, scoprirete che i Cafè Noir non sono adolescenti brufolosi che scimmiottano i propri idoli, ma un gruppo di ragazzotti trentenni che quegli anni li ha vissuti sulla propria pelle, li ha fatti propri, e li ha riversati nella propria musica. Stiamo parlando degli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90, quelli della cosiddetta new wave italiana, di gruppi storici come i già citati Massimo Volume, ma anche CCCP e Diaframma. Anni in cui la musica underground esplose prepotentemente arrivando in televisione e alle orecchie di molti. Anni di delusioni generazionali e sogni infranti, in cui cantare “parlando” era sì un modo un po’ furbacchione utilizzato dai non virtuosi per risultare credibili senza stonare, ma anche semplicemente il modo più naturale di raccontare storie.
Il nichilismo e la disillusione di quegli anni e di quella corrente musicale sono radicati nell’immaginario dei Cafè Noir; le loro canzoni sono storie di quotidiano disagio, di droghe e feste private, strade notturne e guerre mai troppo distanti.
Il sound della band si è molto evoluto dagli inizi e dal loro primo album “Il coltello del vile” (EP, 2012), è passato attraverso commistioni elettroniche, è sopravvissuto ai necessari cambi di line-up e si è fatto gradualmente più cupo e rarefatto. Si è arricchito impoverendosi. Ed è arrivato così l’ultimo e più consapevole “Non oggi” (EP, 2013), caratterizzato da composizioni di più ampio respiro e spruzzate di noise; registrato quasi completamente in presa diretta, per riprodurre per quanto possibile la sonorità del live, dimensione prediletta.
I Cafè Noir sono tra i fortunati che affrontano il mestiere del musicista come l’appagamento di un’intima necessità e non come l’inseguimento di un traguardo dorato. Fortunati perché stando così le cose, la propria realizzazione coincide semplicemente con la massima espressione di ciò che si è e che si ha da offrire. E il “successo”, se non altro quello personale, è davvero a portata di mano. Non resta che tendere il braccio.
Matteo Rotondi (Discover)