– di Francesca Ceccarelli –
E all’improvviso hanno premuto il tasto off, spento, stop, sipari chiusi. Tutto quello che sembrava scontato, quasi dovuto, ci è stato negato in nome dell‘emergenza Covid-19, e in quel tutto c’era anche la musica.
Attenzione! Qui si parla di musica intesa come mercato, tessuto di lavoratori, introiti, live, divertimento, come qualcuno ha “osato” definirla generando un’ondata di bocche aperte che hanno gridato allo scandalo.
Perdersi nel particolare, in una parola, nemmeno ben conosciuta.
Le parole sono importanti sì, di conseguenza dovrebbero esserlo anche le canzoni.
Ma andiamo oltre. La musica ferma: aiuto, cosa succederà?
Tra le risposte più immediate è spiccata la più ovvia, la più immediata: internet. Così il web è divenuta subito la prima opzione possibile dando il via a decine, anzi, centinaia di “…x… è in diretta” di cui molto spesso si sarebbe fatto a meno. Una reazione, quella di rivolgersi al 2.0 che comportava massima resa e minimo costo. Una scelta plausibile e all’inizio apprezzabile laddove portava con sè un messaggio vero, fra tutti la speranza.
C’è poi chi ha preferito tacere, purtroppo la minima parte di artisti, che hanno preso in mano la chitarra o si sono seduti al piano provando a tirar fuori il meglio da quel tempo sospeso.
Ma l’ascoltatore? Chi stava al di là delle transenne, chi si aggirava tra i negozi di dischi e li comprava, il fruitore come ha reagito?
Di certo non ha rinunciato alla musica: che fossero balconi, YouTube condiviso col condominio, dj set improbabili o fieri e decisi vinili che hanno girato e girato per settimane in tutta Italia.
Se un trend è stato sorprendente infatti è quanto il giradischi sia stato l’ombelico delle giornate dei “lockdowners”: in molti hanno deciso di riscoprire il piacere di “mettere su” qualcosa di bello e goderselo a pieno, mentre coloro che non avevano mai pensato di acquistarne uno hanno investito il loro denaro nell’acquisto più vintage ma al tempo stesso attuale della nostra epoca.
Cos’avranno ascoltato poi rimane un sacrosanto mistero: ormai abituati agli streaming pubblici concessi dalle varie piattaforme ognuno si sarà sicuramente sbizzarriti con i classici o magari ripescando qualche vecchia chicca scovata in un mercatino o ancora goduto il rock di qualche super band americana. Libero arbitrio, anche e soprattutto nella musica.
Sarebbe bello immaginare, forse in modo molto realistico, che ognuno abbia avuto il tempo e la voglia di ripescare qualche NOME e goderselo a pieno in testi, musica, atmosfera.
Insomma il tempo sospeso imposto dalla pandemia può essere stato l’inizio di un nuovo inizio, di un nuovo ascolto: più consapevole, più dignitoso. Un messaggio, un’utopia che il mondo discografico non vuole o non vorrebbe recepire vista la proposta musicale che propina in queste settimane estive di semi-ritorno alla normalità. L’originalità? Bandita. Basta accendere lo stereo in auto o dare un’occhiata alle vendite che si rimane inermi di fronte a un’evidenza: una marea, una valanga, una pandemia di cover tiene sotto scacco le radio di tutta Italia. Senza diritto di replica.
Dalla maxi operazione congiunta “I love My Radio” all’album di Achille Lauro, una pantomima degli anni ’90. Perché? Perché non regalarci nel post emergenza Covid-19 un ritorno alla normalità fatto di canzoni nuove, aria rigenerante anche sfidante ma comunque originale?
Perché puntare su un passato che ognuno ha saputo riscoprire da se e con i suoi tempi? Perché rimanere impantanati nella mediocrità di copie molto spesso mal riuscite?
Perché il mercato discografico che tanto manda SOS non sceglie di puntare su qualcosa di rivoluzionario che dia un senso a tutto il pandemonio vissuto?
Le persone sono davvero così inette da volersi subire il remake imbarazzante del maestro Franco Battiato o l’autotune resuscitante Alexia? Alcune cover più imbarazzanti dei tormentoni estivi a base di mare, sole e ientu.
Purtroppo non si tratta di un fattore puramente generazionale, o almeno non solo: se (alcuni) dei giovani si limitano all’ascolto di generi più diretti come la trap o l’hip hop non riescono molto spesso a discernere la cosa più importante, la qualità, di qualunque genere si stia parlando. Basta qualcosa di orecchiabile, un testo carino ma decisamente mediocre, “che funziona” e via con l’amplificazione di qualcosa che molto spesso risponde a una sola parola: “il nulla”. Il fenomeno cover ne è un esempio lampante. Da sempre in Italia c’è stata la propensione a coverizzare ma si parlava soprattutto di brani stranieri e della volontà di aprire confini mentali e d’ascolto laddove ancora gli strumenti globali mancavano. Lode ai Dik Dik, verrebbe da dire.
Fabrizio De André, Piero Ciampi, Lucio Dalla, Lucio Battisti, Ornella Vanoni, Mia Martini, Mina e chi più ne ha ne metta non hanno mai negato la contaminazione musicale, dovuta quando si parla di arte ma hanno sempre rispettato un unico grande e semplice assunto: l’originalità. E il mondo discografico di conseguenza.
Oggi sembra essersi attivato un percorso al contrario: dal core business al cuore della gente e non viceversa, e la cover sembra la strada più facile e poco rischiosa da percorrere, ma molto, molto banale.
Forse solo nel cosiddetto mondo indipendente troviamo ancora impavidi che preferiscono investire su una imprevedibile novità piuttosto che su di un bacio Perugina di cui si conosce già il finale: un appagamento piuttosto illusorio.
In questo momento post Covid-19 in cui sembra che l’emergenza, si spera, cederà il passo alla progettualità ci vorrebbe una musica coraggiosa, che sappia dare strumenti ai giovani senza strumentalizzarli, che sappia comunicare senza limitarsi al numero di streaming o a link da rassegna stampa.
Quello che l’ascoltatore deve pretendere è qualcosa che torni a far sognare, a ragionare ma anche pensare che al di là delle nostre mura fisiche o mentali un mondo migliore da costruire sia ancora possibile.
Ci meritiamo di più: una musica che guardi al futuro ma al tempo stesso abbia rispetto delle sue radici e perché no… delle nostre orecchie. Senza rinunciare al divertimento e alla leggerezza bisogna pretendere una musica che sappia interpretare la società in cui viviamo senza scorciatoie ma prendendo la via maestra, quella delle emozioni e dell’onestà intellettuale. Tutta la filiera va ripensata, ristrutturata e messa al passo coi tempi, quelli anche dell’essere umano che mai come ora apprezza e comprende il valore di una buona canzone, di un buon libro, di un bel quadro, di un concerto goduto al chiaro di luna o in mezzo a una distesa di persone. “La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori”(Johann Sebastian Bach).