di Riccardo Magni.
Bucha è l’alter ego fico di Giorgio, un giovane-vecchio nato e cresciuto nel quartiere Monteverde di Roma, precisamente a metà fra la casa del buon Pasolini e la statua di Garibaldi del Gianicolo.
Con queste parole Giorgio Di Mario, in arte Bucha, giovanissimo rapper che già dal 2014 col suo EP “Fango”, aveva ottenuto ottimi feedback, viene presentato alla stampa ed al pubblico. Ed in effetti questa sua realtà “meticcia”, questo suo essere una vita sospesa nella Roma bene di Monteverde ma con origini ed attitudini molto più popolari (lui dice povere, che effettivamente rende meglio il concetto), fuoriesce con forza dai suoi pezzi ed anche dalle parole con cui risponde alle domande di chi come me, si approccia alla nuova leva RAP con una curiosità “contaminata” dai vecchi ascolti di fine anni ’90, quando Frankie Hi-NRG dettava le regole del panorama nazionale, gli Articolo 31 sdoganavano il genere al grande pubblico, e gruppi come Colle der Fomento, Assalti Frontali e Cor Veleno, imperversavano in una ferventissima scena romana.
Ma Giorgio, in arte Bucha, è nato nel 1995 ed una chiacchierata con lui, oltre a far sentire vecchi gli over 30, può essere utilissima per avere un focus diverso sul RAP italiano ed a rendersi conto che in fondo, i patimenti della nostra epoca non sono poi così diversi, che si appartenga a classi sociali più o meno abbienti o che si abbiano 40 anni piuttosto che 20.
Più o meno, è andata così…
La scena RAP romana ha una tradizione radicatissima e di ottima qualità, c’è qualcuno più di altri a cui, magari ai tuoi esordi, guardavi come ad un esempio?
Sono cresciuto ascoltando gruppi come il Truceklan o i Brokenspeakers , che sicuramente sono stati nel primo periodo in cui mi sono avvicinato al genere, una grande fonte d’ispirazione non tanto per tematiche quanto per fotta e presenza scenica però non mi sento di dirti che li vedessi come un esempio o altro.
Il RAP in Italia è un genere che gode di grande popolarità ma di fatto, anche se in crescita continua resta qualcosa di alternativo, i rapper italiani più famosi pur lanciati nel mercato sono visti sempre con occhio diffidente dal grande pubblico. Cosa pensi della scena RAP attuale Italiana? C’è qualcuno che definiresti il migliore? E qualcuno che invece è stato il più importante?
Beh sono sincero, con Sfera Ebbasta che è l’artista italiano che ha venduto più dischi del 2018, Ghali che comincia a fare i palazzetti, gente che come J-Ax e Fedez che per quanto si siano discostati fanno sempre parte di quel mondo lì, che riempiono San Siro con 80 mila persone, parlare ancora di genere alternativo mi sembra riduttivo. Il rap oggi è il genere che vende di più e con maggiori occhi addosso, ci sono dei luoghi in cui ancora non riesce ad arrivare come le radio (tolte quelle tre o quattro), ma anche un Calcutta ci passa raramente. Stesso discorso per la televisione, però anche lì secondo me è questione solo di tempo.
Già iniziamo a vedere la Dark Polo a X-Factor o Charlie Charles a cui affidano un programma radiofonico su Radio 105. La scena rap la vedo bene, ci sono un sacco di sfumature diverse e credo che ognuno possa trovare qualcosa di attinente ai propri gusti. Secondo me il rapper più in forma in questo momento è Luche, quello più importante sicuramente Fabri Fibra, lui è stato il primo a giocare in Serie A e portare questo genere in Italia al grande pubblico.
Di contro, abbiamo anche ottimi esempi di rapper che hanno trovato modo di esprimersi verso un pubblico diverso, riuscendo ad intercettare il nuovo filone indie-pop. Coez, Willie Peyote, Frah Quintale… Difronte a questo le opinioni si spaccano, tra chi recepisce la grande possibilità e chi la vede come “un tradimento” delle origini. Tu da che parte stai?
Sono tre amici, con ognuno di loro ho vissuto qualche esperienza. A Coez ho aperto un paio di concerti ed ho avuto modo di confrontarmici un paio di volte ed è stato una delle più grandi fonti d’ispirazione per il mio percorso, il suo primo album “Figlio di nessuno” rimane ancora attualmente il mio disco preferito di rap italiano. Con Willie ho passato una settimana a Genova per un concorso di Universal, dormivamo nella stessa stanza assieme a Dutch ed è uno degli artisti più forti dal vivo che abbiamo in Italia. Ho dormito qualche volta anche sul divano di Frah quando aveva casa a Milano con Merio, una casa che era davvero uno zoo. Sono tre artisti fortissimi, mi sento molto vicino alle loro scelte, non posso che essere felice per il loro successo e sto cercando di lavorare al meglio per raggiungere anche io quei risultati.
Parlando di scena RAP ed immaginario collettivo, tu canti Monteverde che non è esattamente lo scenario tipico del RAP come possono essere magari considerate zone più disagiate o periferiche. Di cosa è indice? Certo non si parla delle classiche storie di strada nei tuoi pezzi ma molto più di turbamenti ed emozioni. Significa quindi che le condizioni umane sono trasversali?
Monteverde è un inno che ho fatto per il quartiere in cui sono nato e cresciuto, in tutti i miei brani parlo solo ed esclusivamente di quello che sento, penso e vivo. Le emozioni non hanno confini geografici, quello che scrivo può arrivare al ragazzo di periferia come al figlio del dottore a Rione Monti, personalmente ti posso dire che sono nato “povero” in un quartiere di “ricchi” e che tutto il disco l’ho finito di scrivere ed ultimato tra Tor Pignattara e Corviale, due contesti molto periferici. Questa musica doveva partire dalla povertà per arrivare dove voglio che arrivi.
Parlando di Capodoglio 216 e restando in tema… Se alla fine scappi sempre da te, qual è la valenza di “perdersi per ritrovare se stessi”?
Non ci crederai ma qualche sera fa una ragazza dagli occhi blu mi ha fatto la stessa identica domanda. Ti rispondo come ho fatto con lei: credo che ci sia un filo che separa il concetto di perdersi come componente fondamentale della mia vita che assume un significato di scoperta, di alienazione, di completa perdizione, che sia in una città, in un libro, in un brano, in una donna, eccetera… E lo scappare da se stessi, il non volersi accettare, il non ascoltarsi, fingere che tutto vada bene, mettere la testa sotto la sabbia. Spesso devo perdermi, per ritrovare l’ispirazione, ritrovare il sorriso, ritrovare me stesso. La routine mi uccide, faccio un lavoro parecchio stressante e sento davvero il bisogno, spesso, di spogliarmi di tutte le mie certezze per cercare qualcosa di inaspettato che mi faccia sentire vivo.
Scrivi: “Abbiamo in comune paure, voglia di volare e depressione”. Torno ad insistere: è una condizione che ritieni specifica della tua generazione, o più generalmente una condizione dei nostri tempi? Che colpisce trasversalmente generazioni e classi sociali?
Leggevo un articolo un paio di settimane fa che sosteneva che entro il 2030 la depressione sarà la maggior causa di disabilità lavorativa al mondo, è un tema molto delicato e credo che la mia generazione e quelle limitrofe siano le maggiori vittime di questo fenomeno per diversi motivi, siamo nati con tantissimi comfort, ma anche con tantissime aspettative, ci hanno riempito (a me non molto sinceramente) di oggetti e di modelli da seguire ma ci hanno spesso trascurato di presenze ed affetto, tutti ci parlano ma pochi ci ascoltano, c’è questa ansia continua del risultato, del tutto e subito, del dover trovarsi un ruolo nel mondo conforme a quello che vuole la società e questo crea spesso stress, ansia e panico, che possono trasformarsi cronicamente in depressione. Dall’altro lato è nata anche questa sorta di nuova moda dello Xanax e di tutta quella merda simile, in cui un sedicenne che magari sta vivendo un periodo un po’ di merda subito si fa prescrivere gli psicofarmaci, perché lo sente dire o fare dal suo rapper preferito o dal suo amico più grande. Secondo me bisogna distinguere la malinconia, la tristezza e l’ansia causata da qualche evento che fa parte della vita di ogni essere umano, dalla depressione e gli attacchi di panico, e affrontare certe cose con delicatezza ma soprattutto con tanta responsabilità.
In ogni caso, credi che le motivazioni di questa condizione siano da ricercare all’esterno o dentro ognuno di noi? Siamo così per natura o per motivi imposti dai tempi in cui viviamo?
Ti ho risposto abbondantemente un attimo fa, penso ci sia una buona componente interna ma anche alcuni fattori esterni che possono gravare. Io sono un ragazzo parecchio fragile su alcuni aspetti, ma incredibilmente forte su altri, ho questa natura un po’ malinconica e che protrae a volte verso l’insoddisfazione, e non ti nego che negli anni ho avuto i miei bei problemi a conviverci, pero per prima cosa ho cercato di farmi aiutare e poi ho trasformato il tutto in un’arma, quel pizzico di insoddisfazione mi spinge a non accontentarmi mai, a non fermarmi, a puntare sempre più sul lavoro 24h al giorno per gli obiettivi che mi sono posto. L’aria malinconica, la tristezza o quello che non va, la metto nei testi e mi permette di liberarmi completamente, è come se mi lavassi via tutto, mi rigenero e sono pronto a ricominciare la battaglia con la vita.
Bucha sarà in concerto questo venerdì, 12 ottobre, al Pierrot Le Fou, in via Macerata 58 a Roma. Noi vi consigliamo di esserci.