– di Assunta Urbano –
Ognuno di noi ha un animale dentro di sé, che lo fa trasformare dal dottor Jekyll a Mr. Hyde. Due lati, uno buono e uno cattivo, onnipresenti in qualsiasi coscienza umana. Quello di Filippo Zironi è l’orso e proprio per tale motivo il suo progetto artistico prende il nome di Be a Bear.
L’artista bolognese inizia a muovere i primi passi nella scena ska-punk, esibendosi con la band Le Braghe Corte. Il percorso da solista arriva in un momento successivo con un evidente cambio di rotta. Diventa producer e mescola synth, sound anni Ottanta, la vecchia scuola del rock e i suoni della natura. Il risultato è un “electro-bear-pop”, denominazione che gli calza a pennello.
Di recente, il collega Waxlife (Simone Lanza) ha remixato “My Lullaby”, un brano del 2015 di Be a Bear. Non abbiamo perso l’occasione per intervistare l’artista, che ci ha raccontato del suo lavoro e di cosa significa “essere un orso”.
Non chiedo mai l’origine del nome di un progetto, ma nel tuo caso non posso farne a meno. Cosa significa “essere un orso”?
Il nome viene da un viaggio che ho fatto in Canada, in cui sono stato ospite per quasi venti giorni di una nativa americana che faceva parte della tribù dei Mohawk. Ho conosciuto una realtà nuova per me. Dopo quell’esperienza mi è rimasto molto dentro. Stavo iniziando questo percorso musicale ed ho pensato subito all’immagine dell’orso, perché è un animale sacro per le tribù. L’ho visto rivisitato in tanti modi e mi sembrava bello come simbolo. Per me, vuol dire essere più selvaggi e meno umani. Lasciarsi andare, seguire la parte istintiva. Un’esortazione. Oggi siamo tutti incasellati, preoccupati, digitalizzati. Mi piaceva dare un messaggio già solo con il nome.
È un animale dalla doppia faccia. Da un lato l’orsacchiotto affettuoso, dall’altro il pericolo.
Sono d’accordissimo con te. Piace ai bambini e fa paura agli uomini.
Per comporre, produrre, registrare e mixare brani del tuo progetto ti servi soltanto del tuo iPhone. Quale motivo ti ha portato a questa scelta? C’è una sorta di rifiuto verso gli altri strumenti sia musicali che tecnologici?
No, in realtà, non c’è un rifiuto verso gli altri strumenti. Quella dell’iPhone è semplicemente una scelta funzionale. Io vengo dal mondo rock, dallo ska-punk, suono la chitarra. Avevo delle idee e il cellulare rende le registrazioni improvvise più immediate. Mi è venuto automatico ed ho visto che tra un’applicazione e l’altra la canzone era chiusa, finita. Mi piaceva, suonava bene ed ho provato a farlo altre volte. Oltre che a livello sonoro, poi, si può fare tutto anche a livello grafico, fino alle fotografie, ai video. Ho scoperto che si possono rivitalizzare i momenti morti, ad esempio quando sei in fila da qualsiasi parte ed hai ore di attesa davanti. Ti bastano due cuffie e puoi inserire una linea di basso, dei synth e giocare con la musica. Probabilmente se avessi usato dei canali normali, avrei prodotto meno.
Venendo dal mondo punk, come è avvenuto il passaggio all’elettronica?
Ho sempre avuto un interesse per la musica elettronica. Non parlo di house, techno, ma della scena di fine anni Novanta, inizio Duemila, sulla scia di Daft Punk, Chemical Brothers, Prodigy. Quella roba che ti ritrovavi alle discoteche rock. Per il tipo di impostazione mentale che ho, mi viene automatica la forma classica della canzone, con la strofa e il ritornello, che non è invece quella che trovi nella musica elettronica. Con dei suoni diversi, si vede che in un certo senso quello che faccio è “parente” di ciò che facevo prima. Ogni tanto inserisco una chitarra, una tastiera, qualcosa del mio sound passato è ancora dentro.
Waxlife ha pubblicato da poco un remix del tuo brano del 2015 “My Lullaby”. Prima di parlare di questa nuova versione, raccontaci come è nata quella di sei anni fa e come ha avuto origine l’idea di includere la voce di tua figlia Bianca.
Me lo dico da solo, mi ripeto sempre che quella canzone, secondo me, è un capolavoro. Le canzoni di Be a Bear sono sempre nate sfruttando le emozioni che avevo in quel momento e mi piace crearmi una sorta di colonna sonora. “My Lullaby” è nata sul divano. Avevo la chitarra attaccata all’amplificatore e stavo provando delle cose. Mia figlia aveva solo nove mesi e inizia a fare dei versi. Sembrava fatto appositamente, erano a tempo con l’arpeggio della chitarra. In quel momento ho preso il cellulare, ho registrato un vocale e così è nato il pezzo. Non l’ho cambiata, ho solo tagliato alcuni punti, per conservare la magia del momento. È stato il mio regalo per mia figlia per il suo primo anno. Un momento speciale, per quello dico che è un capolavoro.
Potrebbe avere una futura carriera artistica.
Chissà, è spettacolare come io non abbia messo le mani sulla chitarra o sulla voce, perché non potevo dividere le due tracce.
E poi c’è la nuova versione di “My Lullaby”, firmata da Simone Lanza. Che ne pensi di questa veste diversa che ha indossato la tua canzone?
È una canzone molto delicata, proprio per la storia che ti ho raccontato. La mia preoccupazione era che venisse snaturata, che perdesse quella dolcezza e quella sensazione che avevo dentro. Ho cercato di spiegare il più possibile a Waxlife il significato della canzone. Sono rimasto contentissimo del risultato finale, perché è riuscita a restituire quelle sensazioni che dovevano esserci. Immagino di ascoltare “My Lullaby” alle 3 di mattina in un locale, con delle luci soffuse, della musica alta e tanta gente ammassata. Questa nuova versione è stata chiamata “Rave Mix”, quindi è più anni Novanta e meno Duemila. È un po’ più ruvida, ma conserva la dolcezza. Esperimento ben riuscito.
Usciamo metaforicamente dalla tana dell’orso con un’ultima domanda: se dovessi riarrangiare o remixare un pezzo, su quale ricadrebbe la tua prima scelta?
D’istinto non ho una risposta pronta. Forse ti direi qualcosa in italiano, ma non del panorama odierno. Mi piacerebbe un pezzo storico e riarrangiarlo con lo stile di Be a Bear. Potrebbe essere una roba particolare, magari anche di Lucio Dalla. Anche se devo dirti che lavorare su cose personali ha tutto un altro sapore.