– di Angelo Andrea Vegliante –
In questi giorni c’è il Festival di Sanremo, che ha attirato molto interesse sulla questione del pubblico in presenza. Voi eravate favorevoli all’evento e, se sì, lo vedete come uno spot per poter fare teatro durante la pandemia?
Non siamo stati d’accordo con tutte le proteste per il pubblico in presenza. Certo, si dovrebbe parlare anche dei figuranti, che ufficialmente sono lavoratori e non pubblico, ma è un artifizio. Per noi sarebbe stato importante che il Festival avesse il pubblico, sarebbe stato un precedente importante. Con il pubblico in sala a Sanremo si aprono degli scenari su riaperture ponderate e in sicurezza, come già avvenuto tra giugno e agosto 2020. Oggettivamente, con duecento persone al chiuso e mille all’aperto, nei cinema non c’è stato un solo caso di persona infetta.
Diversi anni fa Sanremo era stato criticato perché i componenti dell’orchestra non erano pagati in maniera congrua, segno che comunque la crisi nel settore era già preponderante prima della pandemia. Il Covid non è l’unico responsabile, ci siamo anche noi, proprio perché non ci siamo mai uniti come unica voce per sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica. Prima della pandemia, era come se tutto ciò venisse accettato. Come mai prima non si è fatto nulla per tutelare i lavoratori?
Il nostro settore è fatto di cento professionalità diverse e ognuna cerca un riconoscimento proprio. Allo stesso tempo facciamo un lavoro dove i dipendenti a tempo indeterminato sono pochissimi: un giorno lavoriamo per azienda X, un giorno per azienda Y, un altro ancora per l’azienda Z. Siamo contrattualmente e mentalmente dei nomadi, persone che magari senza accorgersene sono abituate ad organizzarsi giorno per giorno. Siamo molto individualisti, e quindi molto spesso, se hai lavoro, non guardi a certe esigenze. Nel momento in cui invece è scoppiata la crisi, ci siamo resi conto che l’invisibilità di ieri ci ha reso deboli oggi. È un motivo culturale e antropologico, non siamo nati in fabbrica: siamo un settore in cui siamo divisi e diversi professionalmente, e ci uniamo quando dobbiamo lavorare ma senza capire che ci sono esigenze che sono trasversali alle varie professionalità. Il processo di unione è lungo e difficile, e ancora oggi non tutti lo capiscono.
Tutto ciò mi fa pensare alla recente intervista rilasciata a Rockol dal presidente di Assomusica, Vincenzo Spera, il quale ha affermato di aver provato a creare una confederazione musicale che raggruppi tutta la filiera, che ha avuto dei contatti con voi, ma che non avete voluto aderire. La vostra replica è stata affidata ai canali social, dove avete detto che state aspettando una proposta di statuto da 3 mesi, che non vi siete mai opposti all’idea ma avete avuto la sensazione che fosse più una “concessione” che un progetto vero e proprio. Ci sono state novità nei giorni successivi? Vi siete sentiti in privato?
Dopo aver letto quell’intervista, ho mandato per messaggio il mio disappunto al presidente Spera. Lui ha nicchiato, ma al momento non credo ci potrebbero essere rapporti diversi. È evidente che Spera si muove per fatti suoi. Sicuramente oggi vedo difficile che chiunque si possa approcciare a una confederazione con Assomusica, per lo meno finché c’è questo atteggiamento. Con la manifestazione del 10 ottobre siamo stati i primi a porre le basi per una rete, siamo sempre stati disponibili, continuiamo a fare rete con altre associazioni e dialoghiamo con tutti. Pensare di fare una confederazione dove qualcuno deve comandare perché ‘Sono qui da trent’anni’, rende molto difficili le cose. Le confederazioni si basano sul dialogo, sulla condivisione degli obiettivi e delle idee. Invece ci sono dei diktat, e non può andar bene così. Tra l’altro, ci è stata promessa una bozza di statuto della confederazione che non è mai arrivata. Nel frattempo noi sul tavolo ministeriale abbiamo cercato di dialogare con Assomusica. Accusarci di aver nicchiato è falso, è una bugia grossa che ci lascia dispiaciuti. Noi rimaniamo disposti a dialogare con chiunque, anche con Assomusica. Ma il rispetto deve essere bidirezionale, altrimenti non c’è dialogo.
Veniamo all’iniziativa Ultimo Concerto. Com’è nato l’espediente comunicativo?
È nato da KeepOn per creare l’aspettativa di un concerto vero, sebbene nella realtà poi accendi e il palco è vuoto perché ti hanno impedito di farlo. Oggi su quel palco non c’è nessuno, e quello stesso palco rischia di morire. Era un messaggio molto forte.
Possiamo definirlo un anti flash mob?
Sì, un anti flash mob, ma anche l’assenza può essere un flash mob. Il flash mob è una cosa che accade e non ti aspetti sia concreta. Nel caso di Ultimo Concerto era una realtà che ti aspettavi, ma questa non si è concretizzata. Forse è anche più efficace di un flash mob.
Ci sono comunque state delle critiche. C’è chi è rimasto deluso dal fatto che non ha potuto vedere un concerto e c’è chi ha guardato a questa iniziativa come una resa da parte del vostro settore. Come rispondi a tutto ciò? Sono critiche fondate?
La prima critica è del pubblico che si aspettava di vedere un concerto, ma era chiaro che questa era un’operazione di comunicazione. La delusione è mal fondata, e vuol dire che alcuni non hanno compreso il messaggio. È una resa? No, è un presentare i fatti. Noi siamo fermi, non possiamo fare altro, mica possiamo bloccare l’autostrada con i tir. O meglio, possiamo anche farlo, ma per ottenere che cosa? Il disagio di altri cittadini che fanno il proprio lavoro. Non è questo il nostro modo di fare. Da una parte vogliamo essere messi nelle condizioni di resistere fino a che non possiamo tornare a lavorare, dall’altra bisogna stabilire come ripartire gradualmente. Non possiamo aspettare la vaccinazione e l’immunità di gregge, molti studi prevedono i primi segnali positivi a primavera 2023. Ci sarà la necessità di convivere con il virus, come ad esempio ha fatto l’Inghilterra, che ha previsto un piano per gli eventi col pubblico per giugno 2021. Per noi invece non c’è niente.