– di Assunta Urbano –
Nel 2018 mi sono ritrovata tra gli amici di Facebook un certo Giuseppe Bartolini. Non so per quale motivo, forse erano quei periodi in cui si aggiungevano persone a caso. In tutto ciò, proprio in quei giorni sul suo profilo compariva un singolo inedito “Like”. Mi ha colpito immediatamente e ho iniziato a seguire il suo progetto musicale, Bartolini, tra canzoni e live, come l’esibizione dell’8 luglio 2018 a Villa Ada, a Roma, per Roma Brucia.
Classe ’95 – proprio come me – l’artista, di origini calabresi, romano d’adozione e con il cuore a Manchester, inizia a pubblicare i primi pezzi con il collettivo Talenti Digital e li racchiude nell’EP, BRT Vol.1 del 2019. Il 3 aprile del 2020 pubblica il disco d’esordio Penisola, distribuito da Carosello Records.
Come molti altri artisti e non solo, l’ultimo anno ha segnato uno stop nel percorso di Bartolini. Per fortuna, questa pausa si è conclusa ed il 18 maggio è uscito il brano “Mon Amour”.
Abbiamo sentito telefonicamente Giuseppe Bartolini mentre si trovava in studio e sembra proprio che qualcosa stia bollendo in pentola.
Immaginiamo di entrare nello studio di registrazione in cui ti trovi, che vediamo?
Me che sto lavorando ad un singolo. Ti dirò di più: forse potrebbe uscire a fine mese. Si tratta di un pezzo che ho scritto due anni fa e adesso è arrivato il suo momento di gloria. Sicuramente è più allegro rispetto ad altri.
Il 18 maggio, invece, hai pubblicato il singolo più recente “Mon Amour”. Ci racconti di questo brano?
“Mon Amour” parla di relazioni in generale, sia amorose che in amicizia. È nato durante il primo lockdown, un momento in cui ho avuto un blocco e non riuscivo più a scrivere. Anche con la pubblicazione del disco in un periodo del genere mi sono sentito privo di idee. Poi, mi sono rimesso a suonare ed è venuta fuori una prima demo, con le melodie, ma senza il testo. Tra settembre e ottobre un mio amico mi ha offerto uno spazio in cui ho ricreato una sorta di studio e lì ho scritto le parole. Il pezzo sarebbe dovuto uscire molto prima, però abbiamo preferito aspettare. Avrei voluto farlo uscire a marzo, che, tra l’altro, era il suo titolo originario, poiché parla di persone nate in quel mese. Come me.
“Mi hai detto a marzo ci nascono i pazzi, forse è per questo che ci amiamo – o ci odiamo – a tratti. Ci proverò anche se non ridi mai” mi ha riportato nel tuo passato. Infatti, in “Nel mare annegare” la situazione era opposta e cantavi: “Quando stavo con la mia ragazza, non mi vedeva ridere”. Cosa è cambiato? Com’era quel Bartolini e com’è quello di oggi?
Sicuramente quello di oggi è più consapevole e più lucido quando scrive le cose. Questo è un bene, perché mi consente di avere una certa dimestichezza. Adesso sono cinque anni che scrivo, so meglio cosa voglio fare e dove voglio andare. Riesco ad essere più pragmatico e perdo meno tempo. Però, può essere anche “un male”. Quel non essere tanto lucido tirava fuori l’inconscio. C’è tanto di onirico in quello che scrivo e si presta a mille interpretazioni in base al momento che sto vivendo. I miei testi cambiano insieme a me. Infatti, proprio in “Nel mare annegare” racconto la mia adolescenza in Calabria, come si vede anche dal video. Lì c’ero io sul motorino che pensavo ai miei problemi da teenager. “Mon Amour”, invece, posta a confronto, ripercorre quel trauma, ma tratta temi più romantici, o almeno di coppia.
Abbiamo la stessa età e nei tuoi testi ritrovo tanto la descrizione quotidiana del nostro disagio da inchiodati tra Millennials e Generazione Z. Ti senti rappresentante di altre persone con il tuo percorso musicale?
Innanzitutto ti ringrazio. Poi, beh, non mi sento rappresentante di niente, in realtà! [ride ndr.] Mi sento isolato nel mio mondo tra le nuvole. Il problema principale forse è proprio quello di cui hai parlato adesso, ovvero: l’essere ingabbiato lì tra le due cose. Non so cosa sono: a volte, odio la mia generazione e le cose che abbiamo assorbito; altre, l’opposto. Ultimamente non mi sento proprio parte di una generazione. Anzi, mi sento molto vicino ai più giovani.
Io ho sempre desiderato essere più adulta, l’ansia di crescere e in fretta.
Questo anche io. Da piccolo frequentavo sempre gente più grande e avevo questo “mito”. Sono stato influenzato, sono esperienze che mi hanno portato a crescere un po’ prima. Da un lato sento il peso della responsabilità, dall’altro resto sempre adolescente.
Parlando di influenze, sicuramente il tuo percorso musicale è stato condizionato dalle tre realtà in cui hai vissuto: Trebisacce, Roma e Manchester. Quale senti più tua e perché?
Il 90% di ciò che scrivo fa riferimento a casa mia in Calabria. Non c’è nulla da fare. Roma mi ha dato tanto, soprattutto mi ha fatto tirare fuori il coraggio per diventare chi volevo essere. Ho avuto la fortuna di conoscere tante persone più simili a me. Manchester, invece, mi ha plasmato nell’estetica e mi ha fatto vivere la musica. Quando metto nero su bianco, però, esce sempre fuori quel bambino che c’è in me. Traumi, delusioni e situazioni strane, che magari non sono mai riuscito a superare, riesco ad esorcizzarle in questo modo.
In tre anni hai vissuto molte esperienze, dall’opening act a Calcutta, fino a “Penelope” e “Manchester” inserite nella colonna sonora di Summertime. Da musicista, ci sveli la tua più grande aspirazione o il tuo sogno nel cassetto?
Sono tutte opportunità a cui sono davvero grato. Non mi sarei mai aspettato di ascoltare una mia canzone in una serie televisiva, anche perché sono un grande fan delle soundtrack di queste produzioni.
Come la maggior parte delle persone che conosco, ho vissuto un anno difficile. Quindi, ti dico che il mio sogno adesso è ricominciare a suonare davanti ad un pubblico. Scrivere tanto e ritrovare l’entusiasmo che abbiamo perso negli ultimi mesi. Il desiderio più grande in assoluto forse sarebbe esibirmi davanti a più persone possibili, prima o poi, e vivere con la musica.
Dal passato al futuro, facciamo un salto temporale fino alla tua infanzia. Ti sei avvicinato alla musica distruggendo la collezione di vinili dei tuoi genitori. È vero?
Tutto vero. Quando ero piccolo ero terribile, prendevo gli album di mio padre e ci saltavo sopra. Forse è stata una sorta di maledizione: “Distruggi i dischi e ti ritroverai per tutta la vita a doverne fare di tuoi”.