La rassegna musicale Medimex 2019 ha voluto celebrare i 50 anni del festival di Woodstock.
Ospite della manifestazione musicale, Baron Wolman, il fotografo della gente di Woodstock, intervistato dal giornalista e critico musicale Ernesto Assante, durante uno degli incontri d’autore all’interno del Medimex 2019 che si è svolto a Taranto.
– di Anna Rita Di Lena –
Per raccontare di un grande evento accaduto nella storia, bisogna parlare delle persone che hanno contribuito a renderlo tale. E per questa occasione vorrei raccontarvi di un signore, oggi quasi ottantaduenne, che negli anni ’60, grazie alla pellicola fotografica ha dato testimonianza preziosa di un evento incredibile come quello che è stato nel 1969 il concerto di Woodstock. Parliamo di Baron Wolman, l’uomo che sbrogliava il caos del mondo attraverso uno scatto.
Il mondo, guardandolo è un caos. Un giorno ho preso una macchina fotografica. Ho scattato la prima immagine e ciò che si fermava in quel momento sulla pellicola, non solo rimetteva tutto in ordine ma dava il significato del mondo stesso. Quando ho il caos nella mente, prendo una macchina fotografica e torna la calma.
Baron Wolman classe 1937, ai tempi di Woodstock era un intraprendente trentenne che girava l’America a scattare frammenti di vita rock ‘n’ roll. Lui è stato il primo fotografo della rivista americana “Rolling Stone” esordendo direttamente come caposervizio. Ma quei tempi erano ben diversi da oggi.
Fui contattato da Jann Wenner, il direttore di Rolling Stone, quando ancora il giornale non aveva neppure il nome. E subito accettai. Quel giornale fu realmente la coscienza della controcultura, ha dato voce a una generazione intera. Riusciva a mixare musica, arte e politica. Sono stato molto fortunato.
Nell’estate del ’69 Wolman era in giro con un altro fotografo a seguire vari festival rock. Volevano realizzare un libro. Non sapevano ancora che si sarebbe svolto il concerto di Woodstock. Quando si diffonde la voce e vedono il cast con tutti quei nomi interessanti decidono che non possono fare a meno di andarci. Lui in quel momento era il capo fotografo della rivista Rolling Stone e doveva quindi andare a coprire il servizio. Prende la macchina e a un certo punto è costretto a fermarsi per via del traffico. Le macchine camminavano ad un chilometro all’ora. Non c’era altro sistema per arrivarci ma guardando sulla cartina riesce a trovare una stradina di campagna nella strada laterale che porta dritta al concerto eliminando il traffico. Arriva sul palco e trova già duecentomila persone schierate sul prato di Woodstock.
Gli artisti venivano portati con l’elicottero sul palco. Non c’era altro modo. E nell’attesa della loro performance, si sostava dietro il palco a bere, fumare e (stranamente, ndr) anche mangiare.
C’è stato un momento in cui ero dietro al palco con Jerry Garcia dei Grateful Dead e Carlos Santana. Garcia fa notare che dall’orario in scaletta, avrebbero suonato dopo quattro ore e così, avendo tanto tempo da trascorrere, hanno ben pensato di rilassarsi con un po’ di sballo. Dopo un’ora ci raggiungono gli organizzatori e dicono a Santana: “Guarda che devi suonare con la tua band in questo preciso momento. Ora o mai più”. Santana sale sul palco ed è talmente fatto che la sua chitarra gli sembrava un serpente di metallo che si muoveva tra le mani. Vedeva il suono della chitarra fuoriuscire come un fluido colorato attraverso l’amplificatore raggiungendo il pubblico per poi tornare a lui. E non aveva alcuna idea di cosa stesse suonando. Si vedeva circondato solo da occhi e denti. Era tutto ciò che riusciva a vedere tra il pubblico.
La versione di “Soul Sacrifice”, fatta da Santana col fenomenale assolo del batterista Michael Shrieve, senza rendersene conto, diventò uno dei momenti da fermare nella storia del rock di tutti i tempi. Da quel momento in poi, Carlos Santana diventò famoso. Prima di allora, si trattava di una piccola band proveniente da San Francisco e che suonava nei locali della zona.
Se proprio dovessi scegliere il mio artista di Woodstock preferito, direi Carlos Santana. Sentivo scorrere la musica dentro di me e fu un momento davvero straordinario. Ma Wolman conserva un altro divertente ricordo.
Durante l’esibizione di Santana, il suo manager Bill Graham, era dietro il palco come me e stava suonando un campanaccio. A un certo punto mi chiede di fargli una foto. Così gliela scatto e decido di volerlo suonare anche io quel campanaccio e di farmi immortalare da lui.
Morale della favola? Nella mostra, Baron ha inserito la foto scattata da Graham, anziché la sua, sostenendo fosse la migliore!
Quella di Baron Wolman è stata una testimonianza preziosa per capire, attraverso delle immagini di persone come noi, cosa rappresentò quel festival. Un atto d’amore, di condivisione e pace tra esseri umani, uniti dal collante della musica.
Ero così concentrato sulla gente che camminavo continuamente con una macchina fotografica al collo. È stato come vivere fuori dal proprio corpo. Non potevo sapere che quello che stavo scattando avrebbe raggiunto un valore storico incredibile.