Mi piace sempre quel senso di sospensione quasi apocalittica che sembra echeggiare scenari post-atomici dentro un futuro di macerie e di stenti che rinascono. Ovviamente cemento e decostruzione che poi un poco somiglia al concetto di questa forma canzone, de-costruita per tornare ad un’ossatura e ad una sintesi. Matteo Bosco e Valeria Molina si firmano con un moniker assai interessante: Bande Rumorose in A1.
Come a dire, mi viene da dire: raccoglitori di sporcizia sonora, di quel che “dice la gente” che però qui ci viene restituito in un pensiero libero. Liriche quasi politiche nel senso alto e romantico del termine, dove troppo spesso i rimandi a Vasco Brondi sembrano diventare inevitabili. E tornando alle bande contro i rumori… anzi detentrici di rumore sociale. Questo esordio non poteva forse avere un titolo più giusto: “Gli inquilini del sottoscala”. Come a dire, sempre secondo me: in una riunione di condominio, ecco la voce meno “importante” di tutti noi. Coloro che stanno ai bassifondi della società, forse i meno in diritto di avere voce in capitolo. Ed eccoci dunque dentro 8 inediti dal taglio quasi partigiano, di morbidissima quiete d’autore che richiama la Bologna di Lolli dentro “Mi commuovo ai sondaggi”, Vasco Brondi dicevano dentro “Thomas Sankara” oppure anche dentro “L’Analista Renato”, il dissenso sociale quasi alla Rino Gaetano dentro il singolo “Nuvole Rosse”, se non fosse sempre per quel modo strascicante di pensare alla voce… e poi la matrice blues non può mancare, che da quando apre il disco nelle prime tracce, poi sembra restare nell’aria ovunque ci porti il disco, anche quando fa il verso all’indie meno dinamico. In bilico tra ironia e contestazione sociale, “Gli inquilini del sottoscala” mi mostrano un suono che non ha tanto il peso della ricerca e della novità quanto più l’urgenza di una ispirazione personale. Se solo avesse avuto un taglio decisamente più “comunitario” nelle liriche, forse avrebbe avuto una forza maggiore… e comunque, eccovi l’ennesima prova di un ritorno di fiamma di quel certo modo “antico” di pensare al cantautorato.