Quando il dark folk incontra le introspezioni metropolitane dentro questi riverberi cattedratici, quasi liturgici, quasi a richiamare l’onirico e la sacralità che esiste dietro rituali popolari. Il mito di Proserpina si dipana dentro il concept che c’e tra le righe di questo nuovo disco di Sara Baggini – al secolo Augustine – dal titolo “Proserpine”, disco introspettivo che sviluppa concetti come la costrizione e l’auto-esilio, la reclusione ma anche l’osservazione di se e del proprio modo di stare al mondo. Sottilissima questa voce dal forte peso visionario, immaginifico, che in qualche modo richiama alla mente anche le fila di un certo modo di fare irlandese, quasi epico, quasi alla Loreena McKennitt (senza prendere di lei i boschi e le leggende insomma)… o come anche Joni Mitchell, sempre sfoggiando le mie impressioni conscio di sforare fuori i limiti e i recinti battuti da Augustine nei suoi ascolti, che sono ben altri come ci racconterà. Nuovo disco dunque che questa volta si misura con una produzione a tutto tondo firmata da Fabio Ripanucci, in collaborazione con Daniele Rotella, presso La Cura Dischi di Perugia.
Posso dirti subito che trovo qualcosa di orientale dentro le linee vocali di questo disco? “Pagan” su tutte naturalmente… è una mia impressione?
Hai ragione! In parte è una cosa decisamente voluta, come nel caso di “Pomegranate”: volevo che avesse una linea melodica con un tocco di mediorientale. Altre volte è forse una conseguenza indiretta di alcuni ascolti che hanno certamente influenzato la composizione dell’album, come ad esempio i Dead Can Dance (pensiamo ad album come “Into the Labyrinth”) oppure “My Life in the Bush of Ghosts” di Brian Eno e David Byrne. Credo che a conferire l’impressione di “orientaleggiante” ad una melodia, siano soprattutto quei passaggi di semitono, molto frequenti nella mia musica in generale, qui decisamente dominanti. Volevo che questo album suonasse remoto, antico: e tali sono le sue linee vocali.
Questo mood assolutamente dark, quasi “industrial” se non fosse per la cadenza melanconica e l’aridità di suoni cadenzati invece con interessante parsimonia… da dove nasce?
Di nuovo, certamente dai miei ascolti, alcuni già citati, a cui potrei sicuramente aggiungere, per esempio, i primi Cocteau Twins. Quel tocco di “industrial” invece è certamente opera del produttore di questo album, Fabio Ripanucci; è un po’ la sua firma. Ci ha guidati, in questo, l’ascolto di “Death in June”. Il tratto malinconico è una costante delle mie composizioni, invece, (nonché del mio temperamento). Riguardo la parsimonia negli arrangiamenti, si tratta di una decisione unanime presa fin dalla fase di pre-produzione: sia Fabio che io volevamo un album senza fronzoli, che accogliesse solamente i suoni necessari. Inoltre era una mia esigenza lasciare ampio spazio ai cori, che sono forse i veri protagonisti, in termini di arrangiamento, di questo lavoro.
La mitologia greca come metafora della vita di oggi. Dove si ferma la prima per lasciar posto alla seconda?
Non ho questa visione “progressista” della storia dell’umanità, per cui il mito possa essere in qualche modo un glorioso materiale antico a nostra disposizione per rispecchiare le miserie del nostro presente. Il mito è fuori da ogni tempo, proprio perché parla delle nostre origini. E fuori da ogni tempo è l’arte in generale, sempre, perché è qualcosa di totalmente anacronistico, capace di aprire enormi squarci nella temporalità, di creare cortocircuiti spazio-temporali, enormi voragini del tempo. Non è mio interesse descrivere un qualsivoglia presente – che tra l’altro trovo piuttosto triste –, se non quello che ha a che fare con una mia profonda interiorità, ma anche questa è portata in una dimensione a-temporale, decontestualizzata, forse assolutizzata (ecco perché il mito si affaccia, senza che sia una programmatica scelta): l’Ade – o quel “dark place” (come l’ho nominato) – è quell’altrove, un luogo remoto nello spazio e nel tempo. Lì voglio stare con la mia musica.
Dall’home recording arrivi ad una produzione più completa, più ragionata… come ti ci sei trovata?
Era un passaggio obbligato, la mia stessa musica richiedeva questo “salto”. Per una persona come me, estremamente ostinata e indipendente, non è stato semplice condividere il lavoro con altre persone. Tanto più trattandosi di materiale estremamente intimo. È stato un processo di apertura graduale, ma anche di grande crescita. È chiaro che l’apporto che un’altra persona può dare ad un lavoro di questo tipo è grande e prezioso. Così è stato. Ma ho voluto comunque sempre tenere le redini e si è sempre lavorato su mie idee di arrangiamento, già ben chiare nella pre-produzione che avevo registrato da sola in home recording, di cui abbiamo conservato comunque diversi elementi. La sfida più grande affrontata in studio è stata proprio la ricerca del suono, l’allontanarmi da certe mie “sponde sicure”, per approdare a qualcosa che non avevo previsto e che è stato proprio il frutto di una condivisione.
E se ti chiedessi quanto ha messo piede Joni Mitchell in questo disco?
Devo dire che Joni Mitchell non ci ha messo piede per niente, non è tra i miei ascolti preferiti; del resto, credo ci sia ben poco di folk americano in questo album, sia come sonorità, che come concetto. La presenza di chitarre, per la maggior parte acustiche, non deve trarre in inganno. I miei riferimenti musicali sono altri e vengono da generi molto diversi. Nel mio Olimpo vocale siedono Elizabeth Fraser, Lisa Gerrard, BethGibbons, Julianna Barwick, Kate Bush, Annie Lennox, Siouxsie Sioux…
Bellissimo questo video di “Anemones”… ce lo racconti?
Grazie, con piacere! Voglio innanzitutto dire che è opera del regista Francesco Biccheri, con cui ho avuto il piacere di girare altri video. Mi piace pensare ad “Anemones” come ad uno sprazzo di luce – sebbene crepuscolare – all’interno di un album sostanzialmente oscuro. Come sappiamo, la figura di Proserpina è doppia, in quanto legata sia all’aldilà che alla vita terrena: la dea trascorreva metà dell’anno nell’Ade e l’altra metà (la bella stagione) sulla terra con la madre Cerere, dea della fertilità e delle messi. “Anemones” appartiene senz’altro a questa seconda stagione, una stagione di rinascita, se vogliamo leggere il mito – ed il mio album – in termini simbolici di morte e rinascita. Una rinascita velata di profonda malinconia. Secondo il mito, gli anemoni sono i fiori nati dal sangue del morente Adone, giovane di rara bellezza, amato da Proserpina (oltre che da Venere): da qui deriva il significato simbolico che il fiore ha acquisito nel tempo, “abbandono”. E di abbandono parla “Anemones”, di una solitudine completa, vissuta nella quotidianità, con dolcezza. Volevo essere nel video una creatura effimera, fuori luogo, una serena prigioniera di un altrove, una dimensione onirica che si fa domestica. La parola “anemone” deriva dal greco antico e significa “fiore del vento”, a descrivere la sua naturadelicata: al vento consegno le mie parole, la mia musica, i miei ricordi, i miei desideri… Il mio stesso amore.