PRIMA PARTE – “Mejo che sti regazzini stanno qua che non da un’altra parte”
Arrendiamoci, siamo in TRAPpola. Lo testimonia il fatto che ieri sera migliaia di persone hanno deciso di intrappolarsi volontariamente dietro le transenne dell’Ex Dogana per assistere ai concerti dei nuovi (o dei primi?) esponenti della TRAP capitolina. E lo testimonia soprattutto il fatto che di fila ai bagni e ai bar, al contrario della serata di sabato, questa volta ce n’era eccome, tanto che si faceva fatica addirittura a camminare. Ieri sera all’Ex Dogana si è celebrato un rito adolescenzial-pagano di proporzioni enormi, che impone sul serio, a questo punto, l’obbligo di fare una riflessione su questa nuova espressività artistica. Sui modi in cui è arrivata al grande pubblico (sì, grande) e sui modi con cui si sta incastonando in una scena, quella indie, che con la TRAP e l’hip-hop ha sempre avuto poco a che fare.
Sarebbe interessante cercare di capire quando e dove è avvenuto il giro di boa. Quando, come e perché l’hip hop ha cambiato pelle trasformandosi in qualcosa d’altro rispetto a quello che tutti noi eravamo abituati a conoscere. Come sono cambiato i testi, i citazionismi, i riferimenti e le intenzioni del rap. Ma soprattutto quali sono state le spinte che hanno portato a questa trasformazione.
Perché, tutto ad un tratto la trap è diventata indie? E soprattutto, perché dentro ai testi mi ci ritrovo anch’io, che ho sempre snobbato l’hip hop italiano (perlomeno, quello post Xché Sì! degli Articolo 31)? Dietro a tutto questo melting pot, in fin dei conti, potrebbero esserci soltanto loro, i soldi. I soldi che le etichette indipendenti vogliono fare, spillandoli ai ragazzini che ieri affollavano la platea. Ma affermare questo sarebbe semplicistico e, soprattutto, falso.
Perché la trap ha sul serio qualcosa da dire e per finire in mezzo al gran calderone dell’indie ha dovuto compiere un giro pazzesco, ubriacandosi e andando a zig zag, tararì tararà. Probabilmente il motivo per cui la trap e l’hip hop in generale hanno fatto il loro ingresso nel mondo dell’indie sta nel fatto che la scena rap underground è definitivamente morta e sepolta. Nel corso degli anni, la differenza fra hip hop mainstream e underground si è andata progressivamente assottigliando. Colpa di certi programmi televisivi e di un forsennato cavalcare l’onda che ha investito di visibilità chi prima non ce l’aveva, e che forse neanche la voleva.
Fatto sta che l’inesauribile ondata di notorietà, oltre allo sciacallaggio dei dirigenti delle major, ha trasformato il rap in un genere inscindibile dal successo, praticabile solamente attraverso il successo. Strano a dirsi, dato che nel mondo dell’hip hop la distanza fra l’indipendente e il mainstream è sempre stata più centrale rispetto a qualsiasi altro genere. Sono state composte e cantate centinaia di canzoni sul solo tema dell’aver sfondato, dell’aver fatto i soldi, e ci sono stati dissing infiniti con la sola accusa di essere falsi e inautentici. Probabilmente perché non puoi parlare del disagio suburbano se vai in giro col Cayenne, ma questo è un altro discorso.
Ormai è impossibile pensare a un rap che non sia mainstream. Lì fuori migliaia di aspiranti rapper sono stati lasciati senza una voce, senza un vero e proprio canale espressivo. Ecco così che è arrivato l’indie, che ha offerto uno spazio a chi ne era stato privato. Ecco così Maruego al MI AMI e Ketama 126 all’Ex Dogana. Ecco così la trap, che altro non è se non un nuovo modo di reinventarsi l’hip-hop. Un intera scena è confluita in un’altra che le ha messo a disposizione degli spazi con accoglienza e gentilezza. Eppure, in questo processo, l’indie ha dimostrato di non essere soltanto uno spazio fisico, una camera in subaffitto dove continuare a fare il proprio comodo. Le contaminazioni che ci sono state fra i due generi hanno mischiato le carte in tavola, per il vantaggio di entrambi.
Da una parte, le etichette indipendenti sono riuscite a rinnovare la propria proposta musicale, dall’altra gli artisti Trap sono riusciti in un solo colpo a conservare la solita folla oceanica di ragazzini e a coinvolgere, nel frattempo, una nuova fetta di pubblico. Certo, nei testi gli stereotipi di genere (musicale) rimangono ancora e sappiamo che Ketama si fumerebbe di tutto, perfino la bandiera canadese. Eppure le liriche arrivano anche a chi, come me, era quasi estraneo a questo mondo. Per cui il dubbio amletico rimane: è stato l’indie a cambiare, modificando in maniera indiretta anche il gusto dei suoi seguaci, oppure è stato il rap a modificare i suoi riferimenti e le sue intenzioni?
Entrambe le cose. È innegabile che la patina dell’indie abbia reso appetibile al proprio pubblico un genere che probabilmente sarebbe stato snobbato. Ma è innegabile anche che il rap abbia cambiato i suoi connotati, accogliendo in sé modi e attitudini che altrimenti gli sarebbero rimasti estranei. In un altro articolo, scrivevo che il successo della Trap nelle fila dell’indie era un fatto più di marketing che di musica. In parte, mi sbagliavo, in parte no. Perché se è vero che l’hype tira le fila di tutto, è anche vero che il giro di boa a cui accennavo in precedenza c’è effettivamente stato e l’hip-hop è seriamente maturato. Si può dire, tutto sommato, che il ricambio generazionale che è avvenuto nel cantautorato, stia avvenendo anche nel rap (J-Ax permettendo). Ma qui siamo lontani anni luce dal pianeta di “Vorrei Ma Non Posto”.
Finora non ho citato Carl Brave x Franco 126 perché per loro c’è da fare un discorso a parte, che affronterò nel prossimo paragrafo.
Ah dimenticavo: cazzo, ditelo che Ketama 126 è Luca Marinelli in Non Essere Cattivo.
Giovanni Flamini