– di Giacomo Daneluzzo –
Si può dire che il circolo Arci situato in via Giovanni Bellezza 16/A, a Milano, sia un luogo unico nel suo genere. Noto universalmente come “Arci Bellezza” o, più affettuosamente, “il Bellezza”, non è soltanto un circolo Arci, ma anche un luogo di rilevanza storica e culturale per la città, che da più di un secolo costituisce una sorta di rifugio per chiunque ne abbia bisogno e uno spazio di aggregazione per chi lo cerca. Oggi in molti lo conoscono come location di concerti ed eventi culturali di vario genere, non solo musicali, che si tengono nelle sue due sale: il palco principale, di sopra, e la palestra Visconti, di sotto: in effetti negli anni i suoi gestori sono stati capaci di rendere il Bellezza uno dei punti più interessanti di Milano per quanto riguarda il programma concertistico. Ma il Bellezza non si limita a questo: infatti, oltre alla dimensione dei live e più in generale degli eventi, il Bellezza è luogo di un’intensa attività sociale, che si declina in vari modi, facendo davvero la differenza, giorno dopo giorno, per la città e nello specifico per il quartiere.
Socio Arci da anni e habitué del Bellezza, ho deciso di intervistare Ornella Rigoni e Alberto Molteni, rispettivamente presidente e direttore artistico del circolo. Tutt’e due si sono mostrati estremamente disponibili, facendo luce sull’importante storia del Bellezza e sulle sue attività da due punti di vista diversi ma, per certi versi, complementari.
Alberto Molteni, direttore artistico e membro del direttivo di Arci Bellezza APS
Ciao Alberto! Vorrei iniziare questa chiacchierata chiedendoti qual è il tuo ruolo nello staff del Bellezza.
Io faccio parte del direttivo e in particolare il lavoro che svolgo è legato sia alla parte di organizzazione degli eventi, sia, di conseguenza, al coordinamento degli spazi e delle figure che lavorano qui per le varie attività… La struttura dell’attività è ricca e complessa: mi occupo anche della messa a terra delle convocazioni delle persone che lavorano qui, che ogni settimana sono decine, senza considerare il bar.
Il presente direttivo è al secondo mandato, che finisce nel 2026. È un bell’ecosistema, una realtà che nel tempo è diventata un esempio, secondo me abbastanza virtuoso, di compromesso tra l’essere un’associazione e svolgere un lavoro serio con dei professionisti.
Inoltre c’è un grande lavoro da fare sulla struttura, che ha una certa età; quindi bisogna avere sempre la giusta cautela e la voglia di mantenerla bene. Sono tutti aspetti importanti della nostra attività come gruppo di lavoro.
Negli ultimi anni il Bellezza si è rinnovato dal punto di vista del tipo di pubblico che lo frequenta. C’è un pubblico, oltre che più numeroso, più giovane, rispetto a qualche anno fa, no?
È vero. Durante il COVID abbiamo sentito il desiderio di affacciarci a un tipo di pubblico diverso da quello storico del Bellezza, che invece è più adulto. Questo è il risultato finale: ogni sera alle nove c’è una proposta culturale e il nostro obiettivo è far sapere a chiunque che ogni giorno c’è una proposta di qualità.
Peraltro l’identità del Bellezza è molto ben definita. C’è anche una comunicazione forte.
Questo è un esempio di qualcosa che non c’era mai stata prima al Bellezza: un’immagine coordinata, un racconto, un tema coerente. Paradossalmente funziona perché lo facciamo in modo spontaneo, pur facendo scelte consapevoli, coerenti con il racconto. Abbiamo anche dei partner a cui va bene: sappiamo che gli artisti e i partner con cui lavoriamo possono essere raccontati in questa cornice. Ci sono eventi che magari sono più inerenti al mondo del vecchio rock, altri più vicini all’indie.
È sia una scelta che una conseguenza: nell’ottica di fare una proposta che voglia battere su certi eventi, su certi filoni standard (per esempio: cantautorato, indie rock, britpop, showgaze, omaggi a grandi nomi, serate più “danzerecce” e leggere, che però comunque abbiano dentro un live con un taglio di un certo tipo) cerchiamo al contempo di mantenere una proposta con un livello qualitativo il più alto possibile, nella struttura meglio funzionante possibile. Collaboriamo con molte realtà che abbiamo conosciuto negli anni, tra cui Milano Cantautori, Cambio Palco, Poetry Slam… Abbiamo molta voglia di lavorare con collettivi che percepiscano e vogliano costruire il valore. Tendenzialmente per noi è importante costruire un’immagine di casa, che è un po’ l’obiettivo di tutto quello che facciamo. Poi fa ridere perché noi praticamente davvero ci viviamo, qui, visto che siamo sempre qui tutti i giorni, quindi scherziamo sul fatto che per noi è davvero una casa.
Quindi il concetto chiave dell’immagine che volete restituire all’esterno è questa, quella di una casa accogliente?
Sì, di base è questo. Il concetto è quello dell’inclusività. Siamo obbligati ad avere un biglietto d’ingresso, altrimenti tutto questo non sarebbe sostenibile, però almeno sai che quando ci sei fai un po’ parte di una comunità. Il percepito mio e di tanti è che la tessera Arci, che è sempre stata un po’ “rimbalzante”, quindi di primo acchito un po’ meno inclusivo, è però una cosa a lungo termine: se ti piace mezza cosa ce ne sono almeno altre otto che ti piacciono. Il Bellezza è un punto di ritrovo e il bello è anche questo. Quello che noi fortunatamente possiamo permetterci per questioni di spazio è creare uno spazio di ritrovo. Se vuoi venire qui a berti qualcosa mentre il tuo amico va a ballare di sopra e tu ti senti un concerto di sotto puoi farlo, oppure puoi fare il compleanno al bar.
Il Bellezza è molto diverso dagli altri posti che fanno eventi dal vivo. Perché?
Secondo me la differenza principale è la volontà di andare avanti dritti sulle cose che piacciono a noi. Sono dinamiche tediose o dettagli, ma la concezione che si ha mediamente su un club è che, purtroppo, sia perché ce ne sono sempre di meno, sia perché le cose e le esigenze cambiano, capita di vedere situazioni in cui le cose sono raccontate non all’interno di uno storytelling e di una cornice, ma come completamente scollate tra loro. Noi abbiamo l’esigenza, anche a costo di rinunciare a cose grosse, magari più “facili”, di mantenere una certa coerenza su questo. Questo, però, con la massima voglia di collaborare con tutti, consapevoli del fatto che ci sono persone che ci hanno aiutato nel tempo, che da tempo collaborano con noi, portano proposte belle… Ci dev’essere però sempre la consapevolezza che le cose si fanno insieme e le si fanno qui, e che, quindi, vanno pensate nel modo che questo posto merita.
A Milano hai tutto. Qualunque big della musica se viene in Italia passa a Milano. Ci sono concerti bellissimi, che vedi una volta e che probabilmente non vedrai mai più, con un livello di qualità ed espressione nella parte tecnica, video ed emozionale che è altissimo, di una potenza gigantesca. Però allo stesso tempo devi metterti in un mindset che è quello di: pagare, andare, fruire di una cosa e poi tornare a casa. È quasi come farlo da dentro una scatola, in modo passivo. Noi invece vogliamo fare una cosa diversa, vogliamo farti sentire a casa. Non è che si debba per forza fare il biglietto a cinque euro, come facciamo noi, per creare questa cosa, ma è un dato di fatto che noi vogliamo che la gente viva i concerti in modo diverso.
Anche il fatto che i prezzi dei biglietti siano più contenuti della media sicuramente va in questa direzione, o sbaglio?
È chiaro che se fai la tessera Arci e prendi due birre spendi. Però la volta dopo vieni e spendi cinque euro. Poi chiaramente se un artista a livello europeo arriva qui abbiamo bisogno che la gente arrivi a venti euro. Mai di più, però: su Dice vedi il prezzo finale: se vedi 19 euro è davvero quello che paghi, senza aggiungere un prezzo per la prevendita. Noi incentiviamo la prevendita, che è normalmente percepita come un servizio, e quindi se un concerto costa 15 euro e lo prendi con la prevendita paghi una piccola commissione, per l’idea che ti stai accaparrando la sicurezza di entrare. Ci sta, però noi preferiamo così e Dice ci aiuta in questo; ci fa piacere incentivare una cosa del genere.
La vostra visione vi ha portato grandi soddisfazioni. E Ornella mi ha raccontato che siete riusciti a ripagare un grosso debito, che non è poco.
Certo. Adesso c’è soprattutto la questione dei lavori che abbiamo da fare per via del contratto del Comune. A livello architettonico c’è da fare una serie di lavori; abbiamo già diviso tutto in “pacchetti” interni ed esterni e abbiamo già fatto una buona parte dei lavori: tutto ciò che è sicurezza, fuoco, antincendio eccetera è a posto, con anche una grossa parte difficile da gestire perché siamo in uno spazio che ha più di cent’anni… Ed è una figata! Solo che diventa un po’ complicato, con la normativa vigente. Fare le stesse cose su un posto costruito ieri e uno costruito a inizio Novecento è diverso e ci vuole molta attenzione. Abbiamo sempre fatto il massimo che era nelle nostre possibilità.
Mi sembra la storia di persone che ci hanno creduto tanto.
Senza dubbio.
All’atto pratico il tuo lavoro come funziona?
Io ho un approccio molto spontaneo. Parto dalle line up dei festival europei: mi guardo tutte le band, capisco quali possono andare bene da noi. E a quel punto alzo il telefono e dico a tutti: «Vi piacciono? Riusciamo a portarli da noi?». A quel punto c’è tutto l’iter che comprende: mettersi a scrivere, ragionare su quanto è sostenibile, vedere se c’è una data da fissare che non sia un lunedì mattina… Una serie di cose di questo tipo. Poi ci sono collaborazioni più consolidate, come quelle i collettivi, ad esempio Caramello, che conosciamo e sappiamo che lavora bene ed è legato a un certo tipo di immaginario, con cui c’è uno scambio proficuo. E quindi facciamo tutto insieme. Il concetto è quello di fare cultura, che non è solo organizzare concerti. Facciamo tutto questo perché è la nostra passione.
Se poi tiriamo fuori gruppi che non sono mai venuti in Italia, come abbiamo fatto l’anno scorso con i Dead Letters, comunichiamo con un’agenzia che magari ha interesse a costruire un tour italiano e a dialogare con un ufficio stampa nazionale, che ti dà ulteriore attenzione. E non è scontato che portando sei ragazzi stranieri con pochi ascolti su Spotify la gente partecipi; non è facile essere i primi che portano qualcuno in Italia.
In Italia c’è una certa tendenza tale per cui quando qualcosa funziona fa quasi sempre un salto verso un modo di intendere le cose molto lontano dal nostro. Noi vogliamo essere più consapevoli possibile e coordinare tutto quello che succede qui. Alla fine il “vero indie” è questo, nasce così e del suo tradimento siamo stati tutti un po’ complici, ma prima la scena italiana era fatta in questo modo.