– di Roberto Callipari –
stillness, stop: you have a right to remember è il nuovo disco di Adele Altro, in arte Any Other, uscito oggi per 42 Records.
L’album è un viaggio in otto tracce nell’emotività e nella vita, artistica e privata, di Adele, che si mette in gioco sotto diversi punti di vista. Salta infatti subito all’occhio la collaborazione con Marco Giudici (Halfalib, Liquami) alla produzione, dopo due album prodotti in autonomia; ma altrettanto importanti sono i testi, densi, intensi, che aprono uno spaccato sull’interiorità della cantautrice e polistrumentista con base a Milano, creando porte e ponti che accolgono e invitano laddove nessuno si aspetterebbe.
Abbiamo avuto modo di chiacchierare con Any Other in occasione dell’uscita di stillness, stop: you have a right to remember, per riflettere sul valore del disco e della crescita, umana e artistica, affrontata nella sua carriera.
Come ci racconteresti il disco?
È un disco che secondo me parla di cose molto trasversali, cose che succedono a tutti quanti e che quindi, in qualche modo, ci può far sentire (spero) tutti un po’ meno soli.
Sei tornata con un disco tuo dopo sei anni. Questa pausa così lunga arriva perché semplicemente sei molto impegnata, visto che collabori molto anche con altri artisti, o c’è altro?
Di base ci metto tanto a fare le mie cose, quindi sicuramente il mio essere lenta già non aiuta. In più c’è stata la splendida combo con due anni di pandemia che ovviamente mi ha rallentato il tutto, anche perché mi sono sempre detta che mettermi fretta senza avere la possibilità di suonare non ha molto senso per me. Avrei anche voluto farlo uscire prima, ma le contingenze ci portano qui, a sei anni dopo… È stato un periodo lungo anche per me – anche se non li ho passati a grattarmi la pancia, eh.
Da che suoni arriva un disco di Any Other e quanto è influenzato da quello che fai anche con altri progetti a cui lavori?
In realtà mi sento abbastanza sicura di me, in qualche modo, perché con le mie cose sono arrivata a un punto in cui mi conosco e so cosa mi piace e che mezzi usare, quindi il lavoro sulle reference non è più qualcosa che faccio molto sulla mia musica. Sicuramente, da ascoltatrice di musica quale sono, quello che arriva nelle mie orecchie viene rimescolato anche in quello che scrivo, ma non c’è stato, in questo disco, il sentire qualcosa di altri e dire: «Okay mi piace questa cosa e la metto nel mio». C’è più una ricerca di mettere quella figura musicale o quello strumento nel disco. Ma è comunque un grande calderone, perché ci sono mille cose diverse nella mia lingua musicale e mi piace l’idea di fare un “mischione”.
Una domanda che non vuol essere una provocazione: ti senti una cantautrice?
Credo, anche. Di fatto scrivo e canto le mie canzoni, quindi perché no? Ma onestamente non sono così legata alle etichette in senso specifico…
Basandomi su ciò che mi hanno detto diversi artisti che ho intervistato, credo che la definizione di “cantautore” andrebbe rivista, perché una volta era un termine con un’accezione forte, chiara, mentre oggi sembra riferirsi a chiunque scriva e canti delle canzoni, anche se lo fa in camera col proprio PC. Quello del cantautorato contemporaneo è un mondo molto distante dalla grande tradizione a cui pensiamo usando questa parola. Che cosa ne pensi?
Credo che sia molto distante anche semplicemente a causa del fatto che i tempi sono cambiati e i mezzi sono diventati più o meno accessibili su larga scala. Credo che sì, derivi da quel passato, ma non lo so, personalmente non intendo il cantautore come una figura “nobile” di per sé: di fatto era ed è una persona che scrive e canta delle canzoni. Questo non implica che le canzoni siano buone o meno: quella di cantautrice è una definizione più “meccanica”. Nella mia bio ad esempio c’è scritto che sono cantautrice e polistrumentista, ma ciò non significa che io li sappia usare bene, quegli strumenti [ride, nda]. Non è la definizione che ti qualifica.
Per la produzione dell’album hai collaborato con Marco Giudici ed è interessante perché avete già lavorato assieme, ma è la prima volta che lavori a un tuo album con un altro artista. Come hai vissuto quest’esperienza?
È stato tutto estremamente naturale, perché noi sono dieci anni, in tutto, che suoniamo assieme; siamo migliori amici, e avevamo già prodotto cose insieme, anche se non con Any Other. Marco è comunque una presenza costante nella mia vita artistica, conosce molto bene l’anima di questo progetto, forse anche meglio di me, potendola vedere da fuori. Mi ha permesso di lasciarmi andare un po’ di più, permettendomi di non fare la control freak. Poi amo la visione artistica che ha lui e il fatto che siamo due persone diverse, ma probabilmente complementari, ha dato valore al tutto.
Il suono dei tuoi dischi è sempre molto caldo, quasi come si fosse in sala prove, evitando il classico mix all’italiana. Che tipo di ricerca c’è dietro?
Con Marco le fasi di registrazione e mix sono due cose molto legate. Già dalle prime fasi della registrazione cerchiamo di avere un suono che sia autosufficiente, e il mix serve poi a tenere insieme i vari pezzi. Ma vogliamo quella sensazione di realismo, anche perché non siamo maniaci dell’editing, quindi vogliamo che il tutto poi suoni spontaneo, con una sporcizia che aggiunge qualcosa e magari anche qualche imperfezione qua e là.
Penso che il discorso sul suono del disco sia direttamente collegato a quello dei testi, che sono sì in inglese, ma anche molto densi. Data anche la veste sonora di questi contenuti, pensi che avresti potuto scrivere le stesse cose in italiano?
Non credo, per il fatto che lingue diverse ti fanno pensare in modo diverso, almeno nella mia esperienza. Sei obbligato a certi percorsi mentali, quando parli una determinata lingua, ed è in quello schema che devi stare. Inoltre non credo di essere così brava a scrivere in italiano ma, anche se avessi coltivato quell’esercizio, sicuramente sarebbe stato qualcosa di diverso, anche affrontando gli stessi argomenti.
Ci spieghi meglio il titolo?
Purtroppo sono una grande overthinker [ride, nda] e tendevo ad andare un po’ in cortocircuito sulle cose, diventando magari un po’ ossessiva ogni tanto su alcuni pensieri che non meritavano tutta quell’attenzione, e mi distraevo molto facilmente. A un certo punto, anche grazie alla terapia, mi sono detta che era il caso di trovare un posto sicuro in cui fermarmi, per concentrarmi sui pensieri in maniera più efficiente, cercando di valorizzare pensieri e ricordi, tanto belli e quanto brutti, per quello che sono. Crescendo mi sono resa conto che le cose sono complesse, è vero, ma che possono essere gestite in un certo modo, senza perdere se stessi, ma fermandoci di tanto in tanto, potendo mettere da parte i pensieri sbagliati.
Si sente che c’è molto del tuo vissuto nell’album.
Alla fine sì, perché mi piace proprio raccontare i cazzi miei! Alla fine ci sono, perché parte tutto da lì, e non è il “semplice” valore catartico della scrittura, ma mi aiuta molto anche solo a mettere in ordine i pensieri, perché nel caos l’atto dello scrivere, anche a mano, concentrato su una cosa e fermo, è utile per elaborare delle cose personali della mia vita, spero senza essere troppo espliciti, perché anche tenersi qualcosa per sé non fa mai male.
Adesso ti aspetta il tour. Quanto è diverso il tour con Any Other rispetto a quello che puoi fare con chiunque altro?
Al di là delle cose pratiche, tipo i posti molto grandi o meno grandi (vedi le date grandissime fatte con Colapesce e Dimartino), quando suono per altri, nonostante le responsabilità di fare le cose bene, non c’è l’ansia di dover mostrare il proprio valore, come invece succede con le mie cose. In qualche modo, molto contorto, è quasi più divertente suonare per altri progetti, perché impari a fare bene il tuo e poi ti diverti, di base; quando devi seguire il tuo progetto è la fiera dell’ansia, perché c’è un coinvolgimento emotivo inevitabilmente più profondo, dal momento che ti metti “in mutande” davanti a degli sconosciuti, anche se vengono lì apposta per te e sono potenzialmente ben disposti. Poi è chiaro che, con le tue cose, hai una soddisfazione enorme.
Quanto ti senti cambiata dai dischi precedenti?
Vuoi che sto per compiere trent’anni e al tempo del primo disco ne avevo ventuno, credo siano cambiate tante cose. Ma credo sia connaturato anche alla crescita anagrafica. Diciamo che, forse, mi sento sempre più tranquilla, non per la musica in sé, ma per tutto quello che c’è attorno, e do il giusto peso alle cose. Dal punto di vista emotivo va meglio, ecco. Musicalmente è chiaro che mi senta cresciuta, ma ogni volta che migliori ti abitui al nuovo standard e vuoi sempre di più, quindi è sempre una rincorsa. Ma è anche quello il bello, no?
stillness, stop: you have a right to remember è il terzo album in studio di Any Other, cantautrice e polistrumentista con collaborazioni fra le più varie all’attivo. Dopo aver girato l’Italia e l’Europa in lungo e in largo al seguito dei progetti più disparati, l’arrivo del suo ultimo disco la porterà in giro per tutta la penisola, in un tour che parte oggi, 26 gennaio, dallo Spazio Teatro 89 di Milano, passando anche per Torino, Piacenza, Bologna, Bari, Roma e Verona, dove chiuderà il 9 marzo.