Nel panorama delle nuove band, un occhio di riguardo va speso per gli XHU, complesso-ensemble partenopeo che fa della ricerca, non solo musicale, ma artistica, la propria cifra stilistica.
Nata in seno alle Lab sessions di Alessandro Capasso, format audio-visivo curato e prodotto dal Collettivo Cerchi nato nel 2014, la ricerca e la sperimentazione artistica ha spinto il collettivo verso la musica. Ma non solo: “XHU” non è esclusivamente il nome del progetto, ma anche della lingua creata ad hoc da Alessandro Capasso con cui sono realizzate le canzoni del gruppo. Alessandro Capasso ha dato vita ad una vera e propria grammatica, un linguaggio, nata come l’esperimento di un bambino per nascondere agli altri i propri pensieri, divenuta poi un sistema comunicativo più complesso.
Oggi, dopo tanto lavoro sulla morfologia e fonetica della lingua fittizia, tramite crittogrammi e ideogrammi è possibile scrivere e leggere in Xhu.
“Nheven” è il primo, brillante risultato di questo percorso di ricerca, che potete sentire in esclusiva qui su ExitWell.
Un singolo che non rifugge le formule di un pop contemporaneo, che ad orecchie poco attente potrebbe addirittura sembrare in lingua inglese. Un ulteriore riflessionesullo stato attuale della musica in Italia, pigramente adagiata sui comodi testi nostrani o disattenta alle liriche anglofone.
Abbiamo chiesto agli XHU di parlarci del loro progetto: come nasce una lingua, da zero? E dove porta?
La lingua XHU ha origini lontane, viene prima di tutto, è il punto da cui ho iniziato a tracciar il cerchio. Il mio primo strumento musicale è stato una vecchia macchina da scrivere che avevamo in casa. Mi attraeva il suono di ogni singolo tasto, tutte le possibilità sonore che mi restituivano, cosi diverse tra loro. Tasto dopo tasto assemblavo melodie e scansioni ritmiche che a quei tempi neanche definivo così ma, più semplicemente, un intimo ed intenso“giocare” con il suono. Negli anni non è cambiato il mio approccio alla musica e agli strumenti musicali. Non ho mai smesso di rintracciare la scoperta e lo stupore di un suono nuovo, non c’è nulla in questo incredibile universo che non suoni e risuoni continuamente.
La voce come strumento musicale, dunque?
Esatto, lo è a tutti gli effetti, nessuno si chiede che lingua parli il violino, ti pare? Lo ascolti e ti lasci trasportare, è una cosa ancestrale, primitiva. Ho sempre preferito il suono puro, libero dal significato, il significato delle parole è vincolante e castrante tante volte. La parola è una maledizione. La musica è cura. È rinominare le cose che ci circondano. Solo dando un nuovo nome alle cose è possibile cambiarle. Cambiare il mondo. Tuttavia non è questo quello che mi interessa, è la musica che ogni volta mi rinomina e cambia me. La lingua XHU è la testimonianza in diretta di quanto finora detto, cerca di fare del linguaggio parlato un linguaggio sonoro e basta. Inizialmente è nata come codice simbolico, negli anni poi ad ogni simbolo è stato associato un fonema. Adesso c’è una vera e proprio grammatica primitiva, consultabile sul nostro sito. Si è arrivati ad una maturazione tale della lingua che oggi potresti parlare in XHU anche tu. Anche se ad essere importante non è il significato ma la suggestione, quello che percepisci quando entri in contatto con i fonemi. In un simbolo io potrei vederci qualcosa e tu un mondo diametralmente opposto. E andrebbe bene uguale, non cambierebbe il senso di questa vicenda.
Come vi aspettate che reagisca il pubblico, di fronte alla straniante sensazione di ascoltare una lingua “aliena”?
Onestamente? Probabilmente anche io sarei diffidente all’inizio ma mi incuriosirebbe, per cui approfondirei, cercherei informazioni, delle tracce. La questione è che questa proposta di ragionamento, questa riflessione se vuoi, è calata all’interno di un progetto musicale, per cui in fondo è di facile approccio. Non ho mai pensato di inventare una grammatica fine a se stessa, farne un saggio o che ne so, davvero credere che si potesse diffondere una nuova scrittura. Il tentativo è quello di trascinare in un mondo nuovo l’ascoltatore. È un po’ lanciargli una sfida: ti sto dicendo qualcosa, se mi ascolti sul serio, al di la se comprendi la mia lingua lo capirai. Ed è cosi. Così accade. Non tutti sanno ascoltare per davvero, l’ascolto è un operazione complessa e che non riguarda solo saper usare le orecchie, c’è una via ossea dell’ascolto, una via muscolare, una via emotiva, una via inconscia, possiamo comprendere e quindi ” ascoltare ” su più piani e livelli.
Nato dalle Lab sessions, il progetto XHU si è poi concretizzato in una band. Qual è il percorso umano dietro?
Tutto è iniziato in studio tra i miei Synth e l’utilizzo della sola voce, uso tanta tecnologia, e questo mi ha sempre aiutato ad essere autonomo e indipendente, anche nel mio lavoro di composizione e nelle esecuzioni dal vivo. Cerchio uno ne è un esempio, tuttavia si rischia di vagare quando si è soli. Di perdere il piacere di raggiungere una meta e procedere cosi è quasi un non avanzare. Avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse ad aderire al mio stesso progetto. Ho scelto cosi di condividere le mie mappe e le mie rotte con persone che potessero raccontarmi storie nuove e diverse.
Gli XHU, infatti, raccontano la stessa storia da cinque punti diversi, c’è eterogeneità e diversità nella comunicazione e nell’espressione di ognuno ma è la risultante che ci interessa. Io propongo una storia ognuno la racconta d’accapo, come fosse una storia nuova la prima persona con cui ho condiviso questa visione è stato Armando Taranto , con lui ho iniziato a definire il sound che volevo portar fuori. Armando è un tecnico del suono straordinario, un orecchio come pochi che sa cogliere ogni piccola vibrazione fisica ed emotiva. Successivamente è arrivato Gianmarco Libeccio un chitarrista straordinario, e conoscitore della musica, delle sue architetture e “matematiche”. è l’elemento che più spesso mi riporta alla realtà, con la disciplina del ritmo e il rigore dell’armonia. Con Marco, il batterista, avevamo condiviso molti anni prima numerosi palchi, ognuno con il proprio progetto, spesso ci trovavamo a suonare negli stessi festival o eventi e siamo entrati in connessione fin da subito. Mi piace la sua elegante irruenza, la capacita di evocare armonia con il tamburo. Poi ce francesco, un bassista con la passione per i synth. Linee di basso immediate ma mai scontate, vere e proprie pulsazioni semplici.
“Nheven” è il vostro primo singolo. Preannuncia lavori futuri, immagino.
“Nheven” ha dietro di sé un disco che racconta tutto questo, la lingua XHU, la scrittura primitiva, l’incontro, la contaminazione. Nel futuro più immediato contiamo di portare in giro, nei live, questa storia. Abbiamo scelto di non imporci scadenze per l’uscita del primo disco. Stiamo comunque lavorandoci, ma la verità è che anche in questa fase potrei iniziare a scrivere anche cose nuove, proprio sulla scia di questo primo contatto con il pubblico. Con le reazioni alla lingua, al progetto. Io mi fermo poco, che è un bene ma anche un male. Macino in continuazione idee, suggestioni, stimoli. Tutto questo cerco di sintetizzarlo nella produzione musicale, nel modo più sincero possibile.
Un aspetto interessante è l’etichetta che vi siete autoattribuiti: New Wor(l)d. Vuoi spiegarci meglio di che si tratta?
La nostra musica è difficile da inserire in un unico genere. Credo che la definizione di new wor(l)d, sia quella che più ci rappresenti. Ha molteplici riferimenti: dentro ci trovi riferimenti alla world music, ma non nell’accezione più comune che ha, ma come musica influenzata dal mondo, dalle esperienze. Molte delle mie produzioni arrivano da viaggi in Europa, Asia, Africa, Medioriente. I suoni come mappa del mondo. Come tracce di una geografia umana. C’è sicuramente un riferimento a qualcosa di nuovo, un modo che stiamo scoprendo, una realtà musicale che stiamo sperimentando. In quello che facciamo si rintracciano sfumature rock, una presenza costante dell’elettronica, la noise, l’industrial. C’è una contaminazione di tutto questo.
Giovanni Carpentiere