“In fondo al ‘900”, in fondo, non è tanto diverso da un libro di storia. Beh detta così sembra di vestire di presuntuosa importanza un disco di “canzonette”… ma non sono solo “canzonette” quelle di cui parliamo. C’è il suono di un’epoca che spazia anche dentro le visioni di belle pellicole d’autore e qui la mente mia vaga con raffinata anarchia se ascolta pezzi leggeri come il vento come “Parakalò” (ovviamente scene di mare, di De André come di postini e poeti…), come “Pioggia d’estate” (e qui Pasolini della Roma assolata, il noir di certi western), come “Adíos amigos” (vedute di tramonti e di nostalgie poetiche che racchiudo in me come faccio con i fiori dentro i libri)…
Dentro questo nuovo disco di Andrea Tarquini, cantautore certamente, ma soprattutto chitarrista raffinato, ci troviamo anche l’Italia notturna della capitale anni ’90, un poco a colori e un poco in bianco e nero come nella title track, delicatissima fotografia della vita di tutti noi che gli “anta” ormai li abbiamo sicuri nelle tasche. E poi la canzone liquida, dove per liquida penso sempre alla scioglievolezza delle sue dinamiche, alla semplicità delle sue figure, a quel moto ballabile che palleggia la storia che abbiamo tra le dita… alla chitarra che benissimo potrebbero essere un ukulele e a quel retrogusto esotico che sento dentro “Cassa (in) quattro”. E l’America? Andrea Tarquini sembra conoscerla bene (ed è ovvio che bene la conosce) nel suono di “Cantautori indipendenti” che divide con la voce (assai francese nel mio immaginario) di Federico Sirianni.
C’è l’eleganza e non c’è la ricerca, ovvio, c’è la marcia ingranata ma non c’è la fretta… anzi c’è la saggezza che si misura dentro gli accordi in settima, sospensioni in cerca di risoluzione, dentro quei piccoli momenti di funk che sembrano strizzare l’occhio alle dinamiche belle per le radio ma che in fondo, anche in quei momenti li, il disco cammina lento, attento a tutto, ascoltatore e osservatore di tutto.
Da Andrea Tarquini di sicuro non mi aspettavo un disco di “singoli” radiofonici e certamente dalla sua c’è il brutto scoglio da superare, cioè quello di misurarsi (come tutti che vivono il suo stesso ecosistema) con riferimenti alti, dai “franceschi” che tanto cita in “Ufo Robot” fin dentro alla tantissima musica d’autore che prima di questo disco ha già seminato storie e maledizioni. Difficile reggere il confronto e forse è impossibile sperare in una qualche personalità nuova. Dunque ascoltiamo questo disco lavandoci via di dosso ogni pregiudizio, ogni forma pre-costituita… restano canzoni credibilissime che hanno l’impegno poetico e narrativo dalla loro e non l’estetica o forza glam per il mercato. In fondo a questo ‘900 ci siamo arrivati portandoci via una dipendenza soffocante dalla sola estetica. E ora paghiamone il prezzo…