Andrea Appino nasce a Pisa il 23/12/1978. Dal 1995 è autore dei testi, chitarra e voce degli Zen Circus, band che nel tempo è divenuta una delle più importanti del panorama indipendente italiano. Con loro ha pubblicato sette album, suonato in più di mille concerti e collaborato con Violent Femmes, Kim Deal dei Pixies, Jerry Harrison dei Talking Heads,Nada, Teatro Degli Orrori, Tre Allegri Ragazzi Morti, Perturbazione, Giorgio Canali, Marina Rei, Ministri, Dente, Mariposa, Diaframma, e tantissimi altri. Il 05/03/2013 ha pubblicato il suo primo lavoro solista intitolato Il Testamento, subito seguito da diversi live, nei quali è accompagnato da Giulio Favero, Franz Valente ed Enzo Moretto. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente durante unapausa del tour per parlare con lui di questo suo ultimo lavoro e della sua carriera.
Il tuo primo lavoro da solista, Il Testamento, è un album ricco di suggestioni e di emozioni, legate tra loro da un tema che è presente in quasi tutte le canzoni dell’album: la famiglia. La presenza di questo tema comune quanto fa di questo disco un lavoro dovuto a una forte urgenza espressiva e quanto un lavoro più strutturato, più costruito e definito rispetto all’immediatezza di una necessità artistica?
Il lavoro che ho fatto per Il Testamento è più strutturato nel tempo rispetto all’urgenza espressiva degli Zen Circus, che in tutti questi anni hanno consolidato una cifra stilistica giustamente riconoscibile e identificabile dal pubblico. Gli Zen sono per me qualcosa di incredibile: io suono con loro fin da quando avevo quindici anni, ho iniziato per puro divertimento, in tanti anni sono diventati la mia vita. Componevo le canzoni chitarra e voce, spesso partendo da discorsi che avevamo fatto tra di noi, e cercavo di replicarli e di metterli in musica. Poi però lungo il corso degli anni mi sono ritrovato a scrivere testi che uscivano dall’immaginario a cui ho sempreattinto per comporre le canzoni degli Zen, che sentivo diverse dal mio lavoro con loro: non tanto perché parlassero di episodi accaduti a me o ai miei cari (questo era già capitato in passato), ma perché non vi era quell’ironia e quel cinismo che nei pezzi degli Zen contribuivano a distaccarsi e a far ridere di qualcosa di molto drammatico. Per Il Testamento ho provato ad escludere l’ironia, ad analizzare la realtà in modo duro e crudo, nella sua drammaticità. Ho voluto affrontare questo progetto da solista proprio per la mancanza di questa ironia e di questo cinismo che a mio avviso gli Zen si meritano, che io penso sia giusto abbiano. Questo disco in sostanza non è il frutto di una urgenza espressiva perché volevo provare a fare un lavoro diverso dal solito, volevo confrontarmi con qualcosa di nuovo, comporre un testamento vivente del passaggio sul pianeta di persone a me care.
L’esperienza solista è stata come l’immaginavi oppure durante il percorso hai trovato sorprese o difficoltà inaspettate?
Per uno come me che suona da venti anni con lo stesso gruppo, ti senti le spalle meno coperte nell’affrontare un’avventura del genere. Essere un trio consolidato è bello ma anche difficile, ma in ogni caso hai comunque la forza del fare squadra. Io volevo mettermi a nudo e farlo da solo, come una sorta di terapia. E non è facile, soprattutto per chi non è abituato: ti metti di fronte a tante possibile critiche e a tante aspettative, ma ho preferito non pensarci e lasciarmi andare completamente. Del resto, fare un disco degli Zen Circus senza gli Zen Circus solo per non deludere le aspettative non avrebbe avuto ragion d’essere, si sarebbe perso il senso di questo intero lavoro. Io ho vissuto questa esperienza con molta tranquillità, convinto dei motivi per cui ho iniziato questo percorso. Non immaginavo questa grande risposta da parte del pubblico: ovviamente la mia avventura con gli Zen mi ha aiutato a creare attesa per questo disco, ma vedere questa accoglienza positiva a fronte di qualcosa di diverso da quello che ho fatto finora mi ha fatto estremamente piacere.
Oltre che per i testi, hai utilizzato una diversa tipologia di lavoro anche dal punto di vista musicale? E la scelta della formazione che ti ha accompagnato in questa produzione (Giulio “Ragno” Favero e Franz Valente da Il Teatro Degli Orrori, Enzo Moretto da A Toys Orchestra) è stata effettuata in vista del particolare colore che volevi dare al disco o hai pensato a loro in modo più istintivo?
Come dicevo prima, le canzoni de Il Testamento sono nate chitarra e voce come tutte le canzoni che ho scritto. Quando propongo le canzoni agli Zen non penso neanche agliarrangiamenti, andiamo direttamente in sala prove e sperimentiamo fino a quando non troviamo ciò che vogliamo. Stavolta non avevo idea di cosa poteva venire fuori, quindi mi sono semplicemente guardato un pò intorno e ho trovato in Favero, Moretto e Valente, coi quali ci conosciamo da tanto tempo, le persone giuste al momento giusto che potessero aiutarmi nello sviluppo delle sonorità dell’album. In particolare mi sono molto affidato a Giulio, il suono finale è infatti frutto soprattutto del nostro lavoro insieme: approfittando di un anno di pausa dal mio lavoro con gli Zen, io e lui abbiamo lavorato al progetto come fosse un gruppo nostro, consolidato.
Nel disco infatti ho avuto modo di ritrovare diverse influenze da altrettanti gruppi, delle sonorità molto ricche e varie tra di loro. Ad esempio mi viene in mente Passaporto, che mi ha piacevolmente ricordato gli Smashing Pumpkins dei primi album.
Sì, hai ragione, gli Smashing Pumpkins sono tra questi, del resto li adoro; ad esempio io penso vi si possano trovare tracce anche dei Nine Inch Nails. Sono contento di questo, anche se inizialmente può far sorridere pensare a questi gruppi accostandoli a me e agli Zen. Ma bisogna essere onnivori riguardo all’ascolto musicale, perché aiuta poi nella sperimentazione e per provare qualcosa di diverso, sia quando si ha una cifra stilistica collaudata come con gli Zen o quando si prova qualcosa di totalmente nuovo come ne Il Testamento. Ho voluto affrontare attraverso diversi stili il tema di fondo presente nel disco, cercando di proporre una gran varietà di soluzioni sonore.
Il primo maggio ti sei ritrovato con altri esponenti della musica indipendente italiana allo storico concerto di Piazza San Giovanni a Roma. Volevo sapere se in questi tuoi venti anni di carriera hai avuto modo di notare un’evoluzione o un involuzione di questo panorama artistico, e se c’è qualcosa che vorresti o recuperare dal passato o lasciare definitivamente nel dimenticatoio.
Al termine “musica indipendente” preferisco quello di “musica italiana”: De Gregori, Celentano, Guccini, gli Area, Vasco Rossi, e tanti altri, sono sempre stati indipendenti anche loro, non avevano qualcuno che diceva loro cosa fare; l’unica differenza sta nell’aspetto economico, non nella sincerità artistica. Per rispondere alla tua domanda, io non sono mai stato un passatista. Sono sì legato all’avere fisicamente il disco a propria disposizione, alla band che prova in cantina e che si esibisce davanti a un esiguo pubblico per centinaia di volte prima di salire su un palco importante, ma in generale penso che quello che c’è ora sia il frutto del mio lavoro, di quello delle persone della mia generazione e di quelle precedenti, che non dobbiamo considerarci “della vecchia guardia” o “paladini della tradizione” rispetto al panorama attuale: nel bene e nel male siamo i diretti responsabili di quello che c’è adesso. Sono contento che oggi un gruppo indipendente possa fare un disco e dargli una discreta visibilità quasi fin da subito, cosa che quando ho iniziato io era totalmente impossibile. Quello che mi dispiace è un certo atteggiamento generale nel paese: ormai la televisione è considerata una sorta di Mecca per chi fa musica, e tutto ciò è abbastanza vergognoso. Penso che questo sia un modo di distruggere tutto quello in cui credo, al di là di qualsiasi discorso sulla musica indipendente: è il modo di distruggere l’amore che c’è tra i ragazzi e le ragazze che si riuniscono in un garage che credono nel loro progetto musicale e decidono di portarlo avanti ad ogni costo. C’è ancora gente che conferisce dignità al tuo mestiere di musicista solo se ti vede a Sanremo, e prima di quel momento non sa neanche della tua esistenza. C’è ancora gente che fatica a capire che Samuel ed i Subsonica sono artisti indipendentissimi che sono comunque riusciti a dominare le classifiche. C’è ancora gente che fatica a capire che non è in televisione che si stanno scrivendo le canzoni che tra venti o trent’anni verranno ricordate, come è giusto e naturale che sia. La musica italiana c’è ed è bella, bisogna solo vedere cosa succederà quando non sarà la televisione ad indirizzare i gusti musicali di una gran parte del pubblico, e soprattutto quando non contribuirà a creare una qualità standardizzata che spesso si attesta sulla mediocrità. Mi manca la musica popolare di valore, un Paolo Conte o un Adriano Celentano di oggi.
Prima di lasciarci, volevo sapere se già c’erano nell’aria progetti per il futuro, nonostante tu sia appena reduce dal tour de Il Testamento.
A metà maggio gli Zen Circus rientreranno in studio per il nuovo album, sono già pronte diciotto canzoni. Ho in mente anche un’idea per un prossimo album solista, ma non se ne riparlerà prima del 2015.
Salutiamo Andrea Appino e lo ringraziamo per questa bella chiaccherata con noi, ricordando “Il Testamento” (2013, La Tempesta/Universal).
Flavio Talamonti
ExitWell Magazine n° 2 (maggio/luglio 2013)