– di Alessandra Rossi –
“Risalire quel fiume era come compiere un viaggio indietro nel tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un corso d’acqua vuoto, un silenzio assoluto, una foresta impenetrabile; l’aria calda, spessa, greve, immota. Non c’era gioia nello splendere del sole. Deserte, le lunghe distese d’acqua si perdevano nell’oscurità di adombrate distanze”.
Ogni volta che ascolto “Die” mi viene in mente Joseph Conrad e il suo “Cuore di tenebra”. Perché questo disco del 2015 di Iosonouncane, ovvero il sardo Jacopo Incani è proprio questo: un viaggio alla radice di tutto, dove acqua – fuoco – terra – aria costituiscono l’ossatura dei pezzi. Se non mi credete, fate partire subito “Tanca”, prima traccia del disco. Sembra di stare nella pancia della terra al suo nascere, prima che si formasse tutto, mentre il magma ribolle e la vita s’affaccia, danzando in quest’atmosfera incandescente, per accaparrarsi la propria fetta d’ossigeno. Due minuti e quarantacinque di intro tribale prima che Jacopo canti “Spoglie le rive, il sole schiassa contro gli scogli. Fame rinasce fame nella pietra e muore, senza ricordi. Falce viene, si trascina nel sale e il sale ancora scava sete nella sete”.
Jacopo nasce nell’83 a Buggerru, borgo sardo oggi turistico, storicamente noto perché il 4 settembre del 1904, mentre era in corso uno sciopero della miniera, il Regio esercito sparò sui manifestanti, uccidendone 4 e ferendone diversi. In Tanca, biglietto da visita di “Die” – per altro uno dei miei pezzi preferiti – sembra che ci sia tutta la storia di quel borgo e della Sardegna, i suoi paesini e le sue spiagge che, fuori stagione, conservano ancora quell’aspetto selvaggio e brullo. Incani ci apre le porte di casa sua, della sua terra, ci fa accomodare su un pezzo di tronco sputato in spiaggia dal mare e ci racconta, mentre il vento ci sferza la faccia, la storia di un uomo e una donna che si sono persi, travolti dalla vita e ora naufraghi ma su sponde lontane. Una specie di Ladyhawke che si sviluppa in 6 canzoni, ma senza i barocchismi della fiaba e, soprattutto, senza personaggi terzi che aiutano o ostacolano i due protagonisti.
Ci sono solo loro in “Stormi”, la canzone più celebre dell’album che, lo scorso anno, a 4 dall’uscita di “Die”, è diventata disco d’oro. Nel brano che ti fa venir voglia di correre in spiaggia, di sentire i granelli di sabbia caldi sotto i piedi, c’è un passaggio meraviglioso che dice “alto nel mattino con la luce del sole, vento che si rompe tra le vele, sulla riva cadrò. Sulla riva sei tu, per stendermi al sole”.
Chitarre, fiati, percussioni, suoni digitali: tutto perfettamente bilanciato da questa voce che ci riporta un po’ a Battisti e ci narra una storia d’amore struggente: lui nel mare, con la paura di morire, lei sulla terraferma col terrore di non vederlo mai più. Ce la faranno i nostri eroi? “Buio”, il brano successivo, è la risposta.
Il pezzo sembra il cammino di un naufrago su una spiaggia deserta, battuta da un sole impietoso, dove “nel solco ancora scorrerà, sete che divora i sorsi”. La senti questa sete, che non è solo bisogno d’acqua, ma fame di quel che eri prima, di quel che hai vissuto prima e non sembra tornare più.
C’è una bellezza violenta in queste 6 canzoni, una specie di grazia che, al tempo stesso, è deforme e spaventa. Atterrisce.
In 38 minuti, tempo di una corsa sul lungomare di qualche meravigliosa località sarda, Iosonouncane ci immerge in un modo tutto suo, cesellato alla perfezione come un mosaico dalla trama rigogliosa, a mio parere forse più apprezzabile in vinile, dove si fondono tradizione e tecnologia, dove i suoi testi – vere poesie – diventano quadri che si animano da soli se, spingendo play, chiudi gli occhi.
Se “Tanca” e “Stormi” mi fanno impazzire, non è da meno “Carne”. Vedete, Incani per me è una specie di Chimera. Intendo proprio il mostro mitologico: ha il corpo di un cantante indie, la testa di Battiato, la voce di Battisti e la coda dei Radiohead. “Carne” è un tanto Battiato con la sua “Summer on a solitary beach” – già tanto richiamata nel precedente album “La macarena su Roma” – che rivedo nel testo di Iosonouncane quando canta “Batte scirocco sulle prore, batte alle porte e prende il mare. Ogni giorno si sveglia e muore, ogni giorno si sveglia e cade. Ora ed ancora sulle scale, col mattino ti aspetterò. Svegliami domani amore mio con l’arrivo del sole”. Non sono certo uguali, ma c’è sintonia. Come opposti che si attraggono.
Arriviamo a “Paesaggio” il pezzo più breve del disco che fluisce veloce verso “Mandria”, ovvero “Idioteque”, ma con un pizzico di Cesare Pavese.
Un disco che oggi compie cinque anni. Un disco pieno di sole, pieno di solitudine, ma anche pieno di forza. È un disco fatto di elementi, dicevo: acqua – fuoco – terra – aria, cose che ad oggi sembrano mancarci più del solito, pur essendo a portata di mano. Guardare, ma non toccare. Volere, un casino volere, ma non potere. E allora, di fronte a tutta questa frustrazione, ecco che arriva in soccorso l’arte, ecco che arriva la musica: può diventare quello che volete, può trascinarvi dove volete, può scaldarvi quanto vi serve.
Vi lascio con “Tanca”, che in sardo indica un terreno agricolo, uno di quelli dove si passava un tempo con l’aratro, dove uomini e bestie faticavano e sudavano.
Stiamo tutti attraversando stanchi quel campo. Ma – spoiler – alla fine troviamo il mare.