di Giovanni Flamini.
Lo so, lo so.
Ultimamente sembra che siamo sempre alla ricerca della #polemichetta.
Ma certe cose fanno incazzare e quando ci vuole ci vuole. Quello che fa arrabbiare qui, non sono tanto il cachet di qualcuno o le scelte di amministrazione pubblica di un Comune. Ciò che fa arrabbiare, piuttosto, è la narrazione che ne viene fatta. E lo ammetto: se scrivo questo articolo è anche per togliermi un piccolo sassolino dalla scarpa contro un certo tipo di giornalismo pretenzioso, autoreferenziale e ipocrita.
Ma partiamo dall’inizio.
Come probabilmente già saprete, il Comune di Bologna ha deciso di pagare 5000 euro il buon Calcutta per fargli stilare una playlist da mandare in filodiffusione lungo le strade della città emiliana durante la notte di capodanno. E come è logico che sia, è partita subito la polemica. Una delle riviste intervenute per prima sulla questione è stata la rapacissima Noisey, che ha proposto un articolo la cui tesi fondamentalmente è: il lavoro creativo è un lavoro, per cui va pagato; stilare una playlist è un lavoro creativo; questo lavoro deve essere pagato, non importa quanto.
Un ragionamento che non fa una grinza. Parliamoci chiaro, io non ce l’ho con nessuno, tantomeno con Calcutta: al posto suo, forse, avrei chiesto anche di più. L’arte è uno svago e lo svago va pagato. Se non la pensassi così, allora dovrei indignarmi con me stesso per le migliaia di euro spesi in dischi e giradischi e concerti e via dicendo. La questione nasce quando si inizia ad utilizzare la parola “lavoro”. Io, sinceramente, da musicista, fatico ancora a pensare che suonare in una band sia un lavoro. O perlomeno, se anche dovessi riempire San Siro, mi sentirei in colpa a dire che lo faccio per lavoro. Mi sentirei semplicemente un tizio che ce l’ha fatta a realizzare il sogno di tutti: passare la vita senza lavorare neanche un minuto. Figurarsi se facessi il mestiere di “stilatore di playlist”.
Basterebbe accettare il fatto che si paga e si è sempre pagato per cose completamente inutili, e che alla fine sono anche le più interessanti.
Affermare che fare una compilation per Capodanno sia un lavoro creativo è un insulto. È un insulto per tutti gli stagisti sottopagati e molto spesso neanche quello. Un insulto per i muratori e gli operai. Un insulto per tutti. E, ripeto, l’insulto non sta nei 5000 euro a Calcutta, ma nella giustificazione che si è tentato di appioppargli. Perché è questa la sensazione principale: che ci si stia tentando di giustificare, chiamando lavoro ciò che non lo è, come per difendersi da accuse immaginarie, mosse dalla propria coda di paglia. Per uno strano paradosso, quando si tenta di giustificare i costi dell’arte chiamandola lavoro, si sminuisce in sé il valore dell’arte. Lo svago è sempre costato tanto e le perenni polemiche sui cachet degli ospiti a Sanremo, per esempio, ne sono la dimostrazione (anche se quello, in effetti, è veramente un lavoro, richiede presenza scenica e stare davanti a un pubblico, non fumarsi una canna in compagnia davanti al computer e selezionare la nostra musica preferita). Per cui non serve dire che stilare una playlist è un lavoro, perché non lo è. È una cosa fatta per rendere ancora più carino un evento. Basterebbe accettare il fatto che si paga e si è sempre pagato per cose completamente inutili, e che alla fine sono anche le più interessanti.
(questa playlist la suggerisce Spotify. Tranquilli, è gratis)
Ma il problema forse è più grande e riguarda la nostra epoca in generale. Se l’unico criterio che adottiamo per stabilire cosa è lavoro e cosa no è la retribuzione, allora anche giocare la schedina (in extremis) può essere un lavoro. Quello del giornalista, ad esempio, in moltissimi casi non sarebbe un lavoro e riguarderebbe, nella maggior parte dei casi, soltanto le testate più grandi. Il fatto di essere costretti a chiamare lavoro cose che non lo sono per non ferire i sentimenti di chi le fa, è un semplice sintomo di questa orrenda aria da politically correct che infesta i nostri tempi, la stessa che ci porta a stupirci se un produttore chiede favori sessuali a un’attrice emergente (No! Maddai! Questa non l’avevo mai sentita!). A veder bene, è anche piuttosto frustrante osservare come nel periodo più nero per l’occupazione, in Italia, la nostra principale reazione all’assenza di lavoro non sia protestare, ma inventarci altri lavori, perfino quello di stilatore di playlist! E soprattutto vedere come siamo tutti impegnati in una gara a perdere che non ci porta da nessuna parte. Smettiamola di distorcere la realtà e di rincorrere idiozie irraggiungibili. Organizziamoci politicamente e riprendiamoci il lavoro vero, quello che non dobbiamo far finta che sia tale. Per cui oggi lancio il Movimento Rivoluzionario di ExitWell.
Chi ci ama, ci segua!