– di Martina Rossato –
Con “Ah-ha”, Alessio Alba ci invita a non prenderci troppo sul serio. Usa poche parole, nel suo singolo. In fondo, non c’è bisogno di lunghi discorsi per farsi capire. “Ah-ha” è il suo brano di esordio e il tema centrale è l’ineffabilità che ci blocca durante le prime, imbarazzanti, uscite con qualcuno. La canzone e il suo videoclip, che vede Alessio come Mr Potato di Toy Story, ci trasportano subito in un mood leggero e scherzoso.
Il 7 maggio è uscito il tuo singolo di esordio, come ti senti?
Sono contento. È l’unica parola che mi viene da utilizzare. Sto provando tante tante emozioni diverse, perché sto sperimentando tante cose nuove. È la prima canzone che esce fuori dalla mia testa e poi dalla mia cameretta. Quando incontra le persone e riceve un feedback, generalmente piace, sta interessando: non credo ci sia gioia più grande per chi scrive. Sono tutte belle emozioni.
Il tuo brano parla di amore e dell’importanza delle parole. Quanto son importanti secondo te le parole in amore? E quanto è importante parlare di amore?
Come diceva Celentano: “Io non so parlar d’amore”. Credo che le parole siano importanti, ma non necessarie. Non c’è niente che possa far passare una persona dal “non mi interessa” al dire “è l’amore della mia vita”. Quelle sono altre cose; credo sia più l’atteggiamento e lo stare bene con se stessi che fa funzionare una relazione. Io credo che i migliori rapporti, d’amore, d’amicizia o di qualsiasi tipo siano quelli in cui non c’è in realtà granché da dire, perché ci si capisce anche prima di parlare. Quelli sono i rapporti più profondi.
E invece quanto sono importanti le parole in musica?
Per come affronto la scrittura e la musica in generale, le parole vengono sempre dopo la melodia. È il poeta ad occuparsi delle parole, è necessario che ci sia un narratore perché le parole siano giuste. Un musicista si occupa della musica, sono le parole a dover entrare nella musica, non deve essere la musica ad adattarsi alle parole. Spesso si sente che è un brano è po’ farraginoso: si capisce quando è la musica ad essere adattata alle parole. Capita di sentire frasi brevi che devono entrare in accordi lunghi, e si tengono le note per diciotto ore e mezza, oppure frasi di ottomila parole messe in un verso soltanto [ride, ndr]. Io parto sempre dalla musica perché secondo me quando si fa musica, è la musica stessa che deve far arrivare il messaggio, le parole lo spiegano. La musica fa sentire le emozioni, le parole ne fanno capire il senso; scrivere una canzone è un’unione tra queste due cose, l’emotività della musica e la razionalità del testo. Mi piace vederla così: le parole aiutano a capire la musica e la musica arriva dove le parole non arrivano.
Alla fine un cantautore è un poeta…
Tanti cantautori adesso sono diventati poeti. Se pensiamo alle origini della poesia, era sempre accompagnata dalla musica, quindi queste due cose non sono mai state troppo distanti.
A proposito di cantautori, qual è il tuo rapporto con il cantautorato del passato?
“Cantautorato” ha una definizione ben specifica, quindi ci sono vari cantautori italiani e statunitensi che io, essendo musicalmente onnivoro, ascolto, a partire da Bob Dylan e de André. Però ci vuole una presenza di testa per ascoltare i cantautori, che ogni tanto non ho. Spesso sono gli altri a farmi ascoltare la musica cantautorale, visto che sono molto pigro. Per esempio, la mia ragazza è fan di Guccini all’estremo e ho cominciato grazie a lei ad ascoltarlo anche io. Non so come faccia a scrivere cose così belle, con quelle parole, è indefinibile. Lui è veramente un poeta, anzi è meglio di un poeta. Riesce ad arrivare al cuore delle persone.
Ascoltando il tuo brano mi viene in mente la musica anni ’80, stile “Footloose” o “Take on Me”. È da lì che trai la tua ispirazione?
Quando scrivo i brani, prendo ispirazione da tante cose. Mi piace l’idea di fare un “collage” e mettere insieme cose, idee, concetti, pensieri. Ci sono molte canzoni che ho scritto con altri stimoli, per questa canzone lo stimolo è partito proprio dalla musica pop anni ’80. Quando si pensa al pop anni ’80, si pensa ai synth, quello che facevano ballare in discoteca. Era quella la mia intenzione: prendere quelle tipologie di suoni che fanno ballare e usarli come base ritmica da cui partire.
Cosa volevi raccontare con il videoclip?
È un video nato per gioco, dall’idea non di rappresentare l’effetto del brano: non volevo fare un video didascalico che ridicesse le stesse cose del testo. Mi piaceva l’idea di rappresentare il mood della canzone, il non prendersi sul serio, il giocare. Togliendo le parole dalla canzone, che di norma sono quello che “tira” di più, ho cercato di decostruirla. Questa decostruzione me la sono messa in faccia insieme al videomaker Mattia Nicolai.
Quando intervisto gli artisti mi piace sempre chiedere da dove vengono, perché l’ambiente in cui vivi influenza tanto.
Forse non è tanto importante da dove veniamo, ma dove parcheggiamo [ride, ndr]. Io vengo da una famiglia di persone che hanno sempre amato la musica e hanno sempre suonato. La musica è parte fondamentale della mia vita, c’è da sempre. La chitarra che ancora uso era di mia madre.
La mia città è Monterotondo, che è molto vicina a Roma. C’è una forte presenza artistica in questa città, anche un po’ strana… nel senso che sì, siamo vicino a Roma, ma questa presenza artistica non si sposta a Roma, rimane in città, dove ci sono sempre tanti concerti, mostre, flash mob, rappresentazioni teatrali. Se ho fatto il primo concerto, che è quello che poi mi ha dato la “schicchera”… (“Schicchera” si capisce? Quella che si dà per far partire le biglie, ma mi sono reso conto dopo che era un po’ troppo romano, perdonami [ride, ndr]) …l’ho potuto fare perché ci sono i gestori dei pub che sono sempre pronti a farti fare concerti. È una cornice molto bella.
Il tuo primo concerto?
Il mio primo concerto è stato in un pub. Lo so che non sembra, ché sto parlando da due ore, ma io ho sempre avuto un grande problema di timidezza e non ero molto sicuro sul farlo o non farlo. La mia ragazza mi ha proprio spinto. Fuori dal locale c’è una piazza e ho cominciato a vedere che la gente che passeggiava si fermava a sentirmi. È stata una emozione fantastica vedere che piaceva alla gente.
Hai altre canzoni pronte?
Sì, ho altre canzoni pronte, che spero di far uscire presto. Fanno parte della stessa medaglia di “Ah-ha”, ma ne rappresentano anche l’altra faccia. Alcune sono più allegre, altre più tristi e intense, ma cerco di inserire in tutti i brani un “punto luce”, come dicono i gioiellieri. Per me la musica è come una terapia, ma costa de meno. Scherzi a parte, è proprio una necessità. Mi sono anche chiesto perché in questo momento nessun cantante stia parlando della pandemia: perché ci siamo ancora dentro. Credo sia proprio impossibile parlare di qualcosa che non è ancora finito. Anche perché si parlerebbe di cosa? Non c’è il totale di quello che succede. Forse più avanti qualcuno parlerà di questo periodo un po’ strano però adesso non ne vedo ancora il modo.
Invece nella tua vita ci sono stati dei momenti difficili che sei riuscito a superare, arrivando a dire a te stesso: “Ok, ce l’ho fatta”?
Tendenzialmente una volta al giorno [ride, ndr]. Nel senso che ci sono stati molti momenti difficili, ma ci sono stati anche degli eventi che mi hanno fatto capire che stavo andando nella direzione giusta, come il Tour Music Fest nel 2019. Sono arrivato tra i dodici finalisti italiani di quattromila partecipanti iniziali. Quello mi ha fatto capire che forse non stavo sbagliando strada. Poi ci sono tante persone che ho intorno che mi stimolano e mi fanno capire che ho tanto da dire.
Il prossimo passo?
Il prossimo passo sarà sicuramente pubblicare altri singoli o un EP, ancora non lo so. Non so adesso come si svilupperanno le cose perché il mondo della musica è cambiato. A me piace l’idea di fare un album, perché permette di non dire una cosa che sia troppo autoreferenziale, ma di metterla all’interno di un contesto. Credo che le opere più belle siano all’interno di album che hanno dietro un concetto. Poi chiaramente mi piacerebbe fare concerti. Speriamo di poter tornare presto a una situazione di “normalità”. Speriamo anche perché lavoro con i bambini, facciamo teatro, e mi rendo conto che sono senza energie fisicamente, stanno in piedi cinque minuti e poi si devono sedere. Sto notando dei cambiamenti nel loro comportamento che non sono molto rassicuranti, ed è indicativo. Il teatro è un linguaggio e tanti bambini che non sanno ancora esprimersi bene o che sono iperattivi, trovano nel teatro un modo per esprimersi. Usando il corpo e la musica, si riescono a sbloccare delle espressività che magari di solito sono contenute.