– di Anna Rescigno –
Marco Castello è un cantautore, produttore discografico e polistrumentista originario di Siracusa. Laureato in tromba jazz alla Civica di Milano, pubblica il suo primo album Contenta tu per 42 records. Intanto porta avanti anche un progetto collettivo chiamato La comitiva, assieme ad Erlend Øye dei Kings of Convenience. Nel 2023 pubblica Pezzi Della Sera, secondo disco, con cui moltiplica gli ascolti e inizia ad essere riconosciuto a livello nazionale e ad esibirsi sui palchi più importanti della penisola, tra cui quello del MI AMI festival (che in realtà l’aveva già ospitato nel 2022). È stata proprio la realtà MI AMI ad organizzare la maratona di concerti in solo all’Arci Bellezza di Milano. Ecco com’è stato.
Questo inverno Marco Castello ha deciso di andare in giro per l’Italia da solo con la chitarra, senza una vera e propria scaletta, a suonare i suoi pezzi. L’11 gennaio è approdato a Milano, in particolare all’Arci Bellezza, storico circolo milanese, che per l’occasione ha oscurato i vetri e addobbato il palcoscenico della sala centrale con un paio di piante. Non una, non due, ma ben tre volte nella stessa giornata Castello ha fatto sold-out e cantato davanti a una folla simpaticissima. Una maratona di schitarrate, cori, leggerezza e malinconia. Noi abbiamo assistito alla prima parte.
Strano andare a un concerto che inizia alle 15:30, ma in questo contesto sembra perfetto. Il pubblico è di una dolcezza estrema: bambini in prima fila che accompagnano i genitori, un sacco di siciliani espatriati, e tanti innamorati che si stringono le mani. La formula di concerto proposta da Castello in questo tour è minimale: c’è veramente solo lui con la sua chitarra, nessuna base. Un lavoro veramente difficile, se si pensa a quanto soprattutto l’ultimo disco sia invece cosparso di varie sonorità a volte anche molto articolate. Ma in qualche modo, innanzitutto perché ci troviamo davanti a un favoloso professionista della musica, ma poi anche per la sua capacità di coinvolgere il pubblico con cori e seconde voci (e per la capacità del pubblico, sicuramente molto maturo, nel seguirlo), tutti i pezzi hanno un senso anche in questa forma. Durante Dracme ad esempio, che si chiude con una sezione in cui le varie topline si sovrappongono, la platea contribuisce a portare avanti «Vorrei, vorrei, vorrei, sucaminchia degli dei» mentre Marco canta «Non buttare niente, non hai niente da giustificare». L’atmosfera è intima e rilassata (la fanbase di Castello, nonostante l’onda di notorietà ricevuta nell’ultimo anno, rimane raccolta e affezionata), e gli spettatori interagiscono sia nelle pause tra i brani che durante l’esibizione stessa. Questo perché la versione in acustica dà più spazio alla platea, e fa venir voglia di esprimere quanto siamo legati alle varie canzoni, battendo le mani e canticchiando le melodie assenti della tastiera. Ma dà anche più spazio all’artista stesso, che a un certo punto addirittura, durante Porci, interrompe la musica per spiegare che il testo dice «Fra poco mi scoppia la coppola, è blu» e non «fa bum», e specifica, un po’ arrabbiato, che “i testi su Internet so’ tutti sbagliati”.
La “semantica del contrasto” di Marco Castello, che accosta il vocabolario omerico al linguaggio scurrile, l’italiano del liceo classico al siciliano siracusano, è esaltata nella versione unplugged. Questo perché il “chitarra e voce”, luogo dove nasce il cantautorato, crea attorno tutto uno spazio per essere estremamente scurrili e anche estremamente leggeri. Viene quindi risaltato quel profondissimo patto di sangue, che è alla fine la forza di Castello, stretto tra la sofisticatezza della musica trattata bene, come vorrebbero i “grandi”, da una parte, e l’originalità e l’autenticità di una narrazione svalvolata, che assorbe molto dal testo italiano indie contemporaneo, dall’altra. É indimenticabile, ad esempio, la leggerezza con cui Castello canta Contenta tu, introducendola richiamando il silenzio (“È un pezzo triste”): una canzone apparentemente (e veramente, se si vuole) d’amore, ma con un testo molto forte e doloroso, che scardina violentemente i canoni del tradizionale testo romantico.
Finito il concerto c’è ancora il Sole, qualcuno esclama “sembra di uscire da un after”. Io non scrivo né parlo con nessuno, mi metto le cuffie e faccio partire la discografia di un artista che sa di primavera, per recuperare il tempo perso.