“Resilence Blues” rappresenta l’esordio discografico degli Xayra, autori di un rock alternativo e piuttosto decadente. Diciamolo subito: il titolo è in effetti fuorviante, visto che di blues c’è ben poco nel disco oltre ad esso.
In ogni caso, l’album si presenta come un “doloroso concept autobiografico” e per chi ha la pazienza e il coraggio di ascoltarlo dall’inizio alla fine propone un viaggio nelle intimità più cupe dell’Io, un itinerario tra le pieghe più recondite e inaccessibili della mente umana, un pandemonio in bilico tra chiasso e silenzio. In questa “Babilonia sonora” che pesca a piene mani dal baratro esistenziale e musicale degli anni ’90 (contaminata da sprazzi di Byrds, Grateful Dead e Pink Floyd più lisergici), è evidente come il disco sia costruito su alcuni estremi sonori e concettuali: bene-male, rumore-melodia, solare-oscuro, allegria-disperazione, solitudine-comunione.
Spetta solo all’ascoltatore decidere quale sfumatura cogliere e apprezzare di più. Gli opposti sono connessi tra di loro in rapporti a volte sintetici a volte antitetici, e forse il binomio che li esprime di più è quello dei pezzi “I might be happy” – “Bye bye, myself“: il primo brano è il più allegro del disco e quello più immediato, a dispetto del testo che, nello scenario del concept, affronta l’impossibilità di essere felici e di uscire da un vortice vizioso in cui si perdono tempo e speranze; il brano successivo è la presa di coscienza di una persona che perde se stessa, sprofondando in un abisso mentre in realtà ma sta solamente contemplando la propria immagine allo specchio. A dispetto della sintesi testuale, musicalmente la direzione è inversa: la freschezza del brano precedente si dissipa e la lenta discesa interiore è suonata con cromatismi dissonanti. Ecco dunque il rapporto antitetico.
Brano dopo brano, nota dopo nota, assistiamo ad un puzzle che si smonta (“One single card missing can destroy all the castle you gotta choose“), mentre il protagonista di questo viaggio sonoro ed ontologico (“No soil, no homeland, no womb, no blood…where do I belong?“) si osserva dall’esterno, si pone come spettatore impotente della propria decadenza; le chitarre “fluide” ci guidano attraverso ammissioni di colpevolezza, rabbia per i propri errori e bilanci esistenziali (“It’s easier to absolve or to punish ourselves?“). Gli unici due brani dove è presente un’armonica, unico vero richiamo alla musica blues allusa nel titolo e strumento che spezza il clima tetro del disco, sono il primo e l’ultimo: “Resilence Blues” si apre e si chiude nel buon umore (“I’m happy now, it’s such a joy“, “After all, I’m satisfied“), ma nel mezzo scava tra fosse e cicatrici personali molto profonde.
Tutto il disco è impregnato di atmosfere cupe e fugge da sonorità leggere o squisitamente pop. Lo dimostra anche la cura nella post produzione che, saggiamente sotto la guida del produttore Fabio Grande, è stata affidata ad uno studio di Chicago dove è stato realizzato il mastering (e dove, piccola curiosità, sono state anche scattate le foto per il fronte e il retro della copertina). La pecca più grande, in un lavoro complesso ma senz’altro acerbo, è sicuramente la tipica fretta dell’esordio: troppi brani, alcuni bollabili come riempitivi, troppa carne al fuoco e voglia di sfogarsi, di dire tutto e subito. Forse un po’ di parsimonia nel songwriting avrebbe premiato gli Xayra, evitando il rischio di risultare poco digeribili per gli ascoltatori meno predisposti ad un viaggio così intimo.
Giulio Valli