La fine dell’anno. Quelle settimane di bagordi spensierati a cavallo tra dicembre e gennaio, tra il cappone ripieno di nonna Gaetana e i tortellini in brodo che sgrassano, tra il menotremenoduemenouno e la sbornia che ti dà il benvenuto in un anno nuovo che inizia sempre uguale. Quel periodo bello e crudele dove sai già che succederà: l’internet si riempirà ovunque – OVUNQUE – di classifiche di fine anno. Che tu lo voglia o meno, qualsiasi rivista-ente-istituzione-fanzine-blog-critico pubblicherà immancabilmente la propria lista del top dell’anno. Chiaramente sempre con la dovuta premessa che “è la nostra opinione, eh”.
Ma si sa, le vie del clickbait sono infinite e chi son io per puntare il dito verso tale pratica?
Tutt’altro, trovo che tale pratica sia comunque interessante dal punto di vista sociale, nel vedere cioè come ci si orienta nella lista dei dischi dell’anno, cosa spinge la redazione X a premiare il disco Y.
Prendendo spunto dall’ottimo articolo del sempre ottimo Fabrizio Galassi, che ha stilato una metaclassifica dei migliori dischi dell’anno basandosi sulle classifiche dei principali mezzi d’informazione musicale italiana, m’è però parso chiaro un punto: non c’è alcuna coerenza interna alla produzione musicale italiana. O meglio: pubblico e critica hanno premiato lavori completamente antitetici come i “migliori dischi italiani dell’anno”.
Alle prime 3 posizioni troviamo infatti:
#1 “Die”, Iosonouncane;
#2 “Endkadenz vol. 1 e 2”, Verdena;
#4 “Mainstream”, Calcutta.
Sorvolando sulla terza posizione (occupata da Kendrick Lamar e tutta un’altra storia) e anche sulla seconda posizione (i Verdena sono una band storica, di culto e nel periodo della consacrazione, con un doppio disco dopo quattro anni), la vera novità, la rivelazione sensazionale è garantita dallo splendido lavoro di Iosonouncane, che ha conquistato praticamente all’unanimità la prima posizione e da “Mainstream” di Calcutta, che – pare – abbia deciso di uscire dall’anonimato underground per conquistare i palchi di tutta Italia. Due produzioni indipendenti, italiane, di artisti al secondo giro di boa.
E direi che i paragoni possono fermarsi qui, perché musicalmente parlando mi risulta difficile pensare a qualcosa di più distante: “Die” è un complesso disco che fonde elettronica, progressive, canzone d’autore, sperimentazione e divagazioni strumentali; “Mainstream” è un disco di ballate per pianoforte in minore, di pure e semplici canzoni raccolte negli accordi compresi tra i tasti bianchi e un gusto tutto minimal.
Il disco di Iosonouncane ha un impianto linguistico impervio, ostico, da labirintite, con parole che echeggiano tra loro e si ripetono all’infinito; Calcutta sceglie una lingua da periferia, semplice, diretta, capace di arrivare a tutti, che penetra nel cervello al primo ascolto e anche se non vuoi ti ritrovi a cantarla sotto la doccia.
Jacopo Incani non ha praticamente singoli (forse “Stormi” è il protosingolo dell’album, ma l’unico che può anche solo avvicinarsi a tale nomea) e fieramente ha glissato videoclip per spingere l’album. Edoardo D’Erme ha centrato il cuore dei suoi fan con un azzeccatissimo video su sfondo Pigneto, con protagonista il buffo e tenero ragazzo singalese a patir d’amore.
Insomma, per farla breve, ci troviamo di fronte a due prodotti che non hanno nulla in comune, anzi, sembrano l’uno la nemesi dell’altro. Come si spiega allora tale totale trionfo di consensi? Come coniugare lo sperimentalismo avanguardista di “DIE” con l’impianto AOR, da coro da stadio di “Mainstream”?
Probabilmente – e perdonatemi se scado nel campo del puro soggettivismo – “DIE” di Iosonouncane è DAVVERO un disco capace di bruciare qualsiasi preconcetto sulla musica italiana, qualcosa che a conti fatti era imprevedibile e imprevisto nel mercato nostrano e che per questo ha scosso gli animi dei più. Ma credo anche che la fama stessa dell’album ha superato di gran lunga la reale capacità di concentrazione dell’ascoltatore medio, che – temo, a giudicare da quel che ho potuto constatare di persona – si è accontentato di ascoltare i primi due o tre pezzi su Spotify per poter dire fieramente che “cioè, ‘DAI’ [sic] è un cazzo di disco, cioè”. Forse è il mio essere snob, ma dubito francamente che un disco così complesso e polisemico sia stato davvero assorbito dal numero di persone che dichiara di averlo “adorato”. Forse per l’ardua memorabilità dei brani, ma son sicuro che anche il fan più agguerrito ha dovuto compiere perlomeno 5 ascolti completi per penetrare dentro tutte le tracce – e scommetto che quasi nessuno ascolta più un album INTERO per cinque volte.
Di contro, ovviamente, “Mainstream” di Calcutta. Canzoni brevi, tutti potenziali singoli, con ritornelloni cacciaurla. Il perfetto prodotto pop confezionato e divorato dalla massa. Più che un album, infatti, un proto-EP, quanto basta per metterlo tra i preferiti di Spotify e guardarlo 10 volte di fila su YouTube mentre ci prepariamo per andare a prenderci un bell’ape a Monti. Sì, insomma: “Mainstream” è il trionfo dell’hype internettiano, un capolavoro di tempistica e comunicazione, uscito perfettamente in tempo per montare a valanga e conquistare le classifiche di fine anno, facendo dire con orgoglio che “Calcutta è stato indubbiamente uno dei protagonisti di questo 2015” (cit.), anche se il disco è uscito a fine novembre e fino a qualche mese prima ai suoi concerti andavano poche decine di persone (con le stesse canzoni, ovviamente). Annullando idealmente dischi e autori usciti nello stesso anno e con contenuti simili, come Giovanni Truppi (praticamente innominato dai più) o i Cani che comunque un paio di singoli l’hanno buttati fuori (inghiottiti dai flutti senza creare grandi onde – apparentemente).
Ma devo concludere questo sproloquio, cercando di trovare un punto conclusivo: le classifiche di fine anno ci rivelano che i dischi più di successo del fu 2015 sono lo specchio perfetto del pubblico italiano, confuso nel prendere posizione, indeciso se chiamare la musica “arte” o “intrattenimento”, sospeso tra l’abbraccio rauco e il beat elettronico. Le classifiche di fine anno dunque offrono più domande che risposte: che ci attende nel 2016? Emergerà la spinta art rock sulla scia di Iosonouncane o trionferà il pop malinconico di Calcutta? Chi farà più proseliti? Di quale disco parleremo ancora nel 2030 e quale artista indie riuscirà, semmai riuscirà, a fare il botto e quindi i big money del… mainstream?
Riccardo De Stefano
commento solo per farvi sapere che io ho perso il conto di quante volte ho ascoltato DIE. lo apprezzo non perché mi piace darmi arie da fighetto con gli amici all’ape – abito disperso in provincia, se dico alla gente di qui che ascolto un tizio di nome iosonouncane mi guardano male -, ma perché la fattura del disco è elevata dall’inizio alla fine ed è sempre un piacere ascoltarlo. so che può sembrarvi assurdo, ma sappiate che molte persone “comuni” come me ancora comprendono quando stanno ascoltando buona musica nonostante vent’anni di berlusconismo, il gender, o qualsiasi altra cosa pensiate sia alla base di tutti i mali della società, il resto sono chiacchiere da snob e noia.
Ciao, mi fa piacere che “DIE” ti sia piaciuto, è piaciuto anche a noi e non penso che ci sia nulla di “hypeato” dietro Iosonouncane, al più l’effetto onda del “è un grande disco perché lo dicono tutti” di buona parte del pubblico (se non della critica che si spera sia sempre all’altezza). In fondo anche tu hai detto che nella provincia – ma fidati, è un male diffuso ovunque – a sentire nominare “Iosonouncane” le persone pensano male. Diciamo che è la mia visione (un po’ snob e borghesotta lo ammetto) di buona parte del pubblico che si annoia al quarto streaming di fila. Ma magari mi sbaglio eh! Il disco rimane un gioiello, pubblico o meno.
Bravo.