– di Roberto Callipari –
Scavare nelle fragilità e uscirne vincitori, tuffarsi e ritornare a galla: questo e molto altro in TUFFO, l’album d’esordio di PUGNI, un disco nato dopo anni di fatica, che viaggia dalla Toscana fino alle strade di Torino, perdendosi fra studio, appartamento e clinica psichiatrica, il luogo in cui Pugni esercita la sua professione senza perdersi mai nella definizione di una cosa sola. TUFFO è un disco difficile, e bisogna dargli il suo tempo.
Con un po’ di ritardo, ci prendiamo del tempo per parlarvi del disco dell’artista toscano e per riportarvi le chiacchiere che ci abbiamo fatto attorno. TUFFO è sicuramente un disco esigente: in primis con chi lo produce, che – come leggerete – non si fa sconti, e in secondo luogo con l’ascoltatore, che è costretto a rivedere i suoi canoni per ascoltare della musica. Punto. Uno degli aspetti più apprezzabili del disco, infatti, è sicuramente la sua capacità di fregarsene dei generi e delle categorie, diventando a tutti gli effetti uno spazio d’espressione che viaggia ramingo, come la mente e le mani che lo producono. Non è un disco di plastica, non ci sono pose dietro: TUFFO è così perché il percorso creativo e la storia di chi lo ha prodotto lo hanno portato ad essere quello che è, e questo basta.
Possiamo sicuramente spendere tante parole sul suo valore, su come le tracce arrivino sempre e di come i testi siano tutto fuorché banali, viaggiando sempre su un doppio filo, cioè fra il mediato e l’immediato, quindi in uno spazio elastico fra il detto e il non detto, che comunque qualcosa lascerà, dietro di sé. Possiamo anche parlare del valore degli arrangiamenti e delle produzioni, attenti e precisi, confezionati su misura come una bellissima veste di un’altra epoca, quando la lavorazione in serie non esisteva e tutto veniva visionato attentamente, dall’inizio alla fine.
Potremmo anche parlare di come il disco voli fra mille mondi diversi in soltanto mezz’ora, ma forse è meglio che lo ascoltiate. PUGNI, alias Lorenzo, ci ha raccontato il suo mondo e com’è stato lavorarci e siamo contenti di riportarvelo.
Cosa significa per te questo disco?
Parto dal titolo: faccio musica da tanto, ma ci ho messo tanto a tuffarmi, ed è stato per me un percorso di scoperta, in cui ho trovato una parte di me. Per com’è stato prodotto, questo album non ci ha fatto sconti, è arrivato tutto di pancia, e ci ha sorpresi.
Cos’hai trovato quando ti sei tuffato?
Tante cose belle che ho sempre sotterrato per paura di deludere le aspettative. Poi ho capito che la fragilità è una fonte di ricchezza: pensiamo sia un freno, invece è una possibilità che ci connette a noi stessi e agli altri.
Quali eran le tue aspettative sul disco?
Ovvio che ognuno spera sempre il massimo dall’uscita dell’album, anche in termini di successo e visibilità, ma l’aspettativa e la sfida consisteva già nel farlo. Sentirlo ora e risentire tutto quello che ci abbiamo messo dentro, sentire quanto per me fosse importante scriverlo e suonarlo è già tanto. Questo è ciò che ci voglio ritrovare. Poi ovviamente vorrei uscire dalle rigidità, dagli spazi e, per quanto non vorrei mai appesantire l’ascoltatore, vorrei dargli diversi livelli d’ascolto: c’è una melodia, che è godibile (spero) di per sé, ma c’è anche dell’altro, che è quello che c’è dietro ai testi e come questo si combina con la musica.
Quello che è sicuramente evidente è che è un disco molto intimo.
È un lavoro molto spontaneo, in tutta la sua forma. Tutto è legato agli strumenti, al suonato, perché volevamo partire da qualcosa di vero e sincero, magari seguendo anche delle linee diverse e sentendoci in grado di esplorarle nella loro libertà, come se ogni brano godesse di una propria vita indipendente. Infatti secondo me ne è uscito qualcosa di particolare, visto che è come un organismo complesso, nel quale diversi organi lavorano tutti assieme per la riuscita di qualcosa di bello.
A proposito di spontaneità e di complessità non passa inosservato lo skit con Francesco Fanucchi [stand-up comedian, nda], che fa qualcosa di diverso da ciò per cui lo conosciamo…
Anche la cosa di Francesco è nata in maniera molto spontanea. Anni fa gestivo il Leningrad Café, dove lui ha iniziato, e con gli anni ci siamo sempre tenuti in contatto, fra cazzeggio e riflessioni più serie, alcune delle quali abbiamo deciso di inserire in ciò che avete sentito sul disco. Parliamo di luci e di ombre, di quanto non si possa cercare la luce evitando le ombre, e ha contribuito con una delicatezza e una profondità artistica che ho amato, a riconferma del grande artista che Francesco è, e sono convinto che lo mostrerà a tutti, in ogni modo possibile.
Com’è andato il release party?
Molto bene [anche se siamo al telefono mi sembra di sentire un sorriso, nda]. Era sold out pieno, abbiamo anche avuto ospiti importanti, come Willie Peyote e Danny Bronzini. Sono rimasto impressionato dai silenzi, in realtà: quello del dopo sicuramente, ma anche quello dell’attesa, anche solo fra un pezzo e l’altro, perché era assurdo e sincero. Non vedo l’ora di poter continuare, in giro per l’Italia.
I temi che porti sono molto forti ed importanti, e sicuramente la tua professione avrà influenzato la scrittura. Cosa ne pensi del modo in cui si parla di salute mentale oggi, tanto nella musica quanto al di fuori di questa?
Secondo me è bene che se ne parli, ma bisogna fare attenzione ai modi in cui lo si fa e ai rischi in cui si può incappare. Ho paura che questa narrazione mainstream alle volte possa portare a una visione parziale delle cose. Purtroppo c’è una visione borghese, nel modo in cui se ne parla: c’è quasi una coolness nel modo in cui si parla di terapia, scalzando e quasi ignorando tutta quella parte di sofferenza “vera”, quella di persone con patologie, anche molto gravi, che magari proprio a causa di queste sono chiuse nelle cliniche.