– di Martina Rossato –
Ho conosciuto Samuel Costa alla terza edizione di Hyperlocal, festival milanese che mette al centro temi quali la diversità e il concetto di comunità, e non sarebbe potuto essere altrimenti: Hyperlocal è un posto caotico, pieno di vita, energia e progetti, proprio come Samuel.
Tra balli sfrenati, musica a volume altissimo sparata direttamente dagli impianti audio montati sulle macchine parcheggiate nel cortile e un talk incentrato sulla cultura dominicana, Samuel si è fatto strada nella folla per venirmi a salutare. Ho subito capito che avrebbe avuto molto da raccontare, così ci siamo accordati per una chiamata per parlare del suo singolo, La signora dei baci, il secondo del nuovo progetto che lo vede in una veste diversa da quella a cui eravamo abituati con Samuel Heron, cioè quella del cantautore.
Abbiamo chiacchierato non solo di musica, ma anche di arte, fascino per il passato e fotografia.
Come stai?
Tutto bene, sono da poco tornato a casa e mi sembra di essere stato cast away su un’isola deserta nei mesi scorsi. Sono successe molte cose: mi sono sposato e ho fatto due viaggi di nozze, poi sono stato sballottato in giro per l’Italia. Ora che sono tornato a casa mi sento un po’ scombussolato [ride, nda].
Hai iniziato un nuovo percorso con questo nuovo progetto, che cosa significa per un artista che ha una sua immagine, un suo pubblico e una sua carriera avviata fare un cambiamento così importante?
Per me il cambiamento è fisiologico. La distruzione di ciò che ero prima è indispensabile per la creatività, ed è una scelta che attuo anche nella mia vita, in maniera automatica. Questo cambiamento è figlio di alcuni avvenimenti e disavventure durante il mio percorso e ha una matrice legata ad avvenimenti esterni non controllabili, che poi si sono rivelati essere delle risorse. Il cambiamento è stato forse più drastico agli occhi degli altri: per me è un cambiamento stilistico che sarebbe inevitabilmente arrivato e lo vivo tranquillamente.
Hai parlato di “distruzione”: per te è un cambiamento così radicale? Mi sembra che ci sia un filo logico tra i progetti.
Sì, è vero, però io sono molto drastico e mi piace attuare su di me questa drasticità. Sono molto netto e ciò mi aiuta a sancire il cambiamento. In questo caso ho anche cambiato nome, che può essere vista come una scelta drastica. Però è lì che arriva il divertimento e la riscoperta, così nasce un nuovo percorso, pur mantenendo alcuni aspetti del passato. Queste cose che rimangono sono una ricchezza che mi porto appresso.
Parlavi del nome e una cosa che volevo chiederti è proprio questa: sei “tornato” al tuo nome di battesimo. Ti senti più vicino alle tue origini, adesso?
Samuel Heron ha rappresentato un brand ben preciso, associato a caratteristiche, usi e costumi ben chiari. A tratti rinnego il mio passato, altre volte ne sono contento e fiero, dipende da che aspetto prendo in considerazione [ride, nda]. Per la creazione di qualcosa di nuovo, mi sembrava doveroso dare un vestito nuovo anche al nome: mantenere il vecchio nome mi sarebbe sembrato come rimanere ancorato a vecchie glorie e adagiato su quello che avevo costruito come Samuel Heron. Sarebbe stato più facile, sotto certi punti di vista, nel senso che è un nome che si associa subito – spero [ride, nda] – a qualcosa di positivo. Il nome di Samuel Heron avrebbe potuto fare anche gioco, ma non è più la persona che sono adesso.
In parte sì, nel senso che sono sempre io, però creativamente non mi rappresenta più, proprio perché ha avuto degli elementi iconici di sound e anche fisici che è giusto che rimangano nel passato.
La reazione del pubblico come è stata? Ti ascoltano le stesse persone?
No, inevitabilmente no. Anche perché, oltre a distruggere il nome, ho distrutto anche un account Instagram per varie vicissitudini, meramente tecniche in realtà. Fui tra i primi ad essere shadowbannato da Instagram, tra l’altro in un momento molto critico, quello della promozione di un disco, nel 2019. Presi la scelta un po’ obbligata di abbandonare quel profilo e “attivare” una nuova identità. Questo ha fatto una brutale selezione tra le persone, ma c’è chi mi ha seguito nel cambiamento, chi è cresciuto ha compreso il mio viaggio e poi ci sono tutte le persone che abbracciano a trecentosessanta gradi la mia persona, compreso il lato fotografico, ad esempio. Non tutti, però molti mi stanno riscoprendo. Tra l’altro, quando la gente mi ferma per strada prevale ancora il «Ciao, Samuel Heron!», però molti cominciano a salutarmi come Samuel Costa.
Venendo al nuovo progetto, il primo singolo parla di serpenti. Che cosa sono per te questi serpenti che ti pungono e ti fanno male?
Intanto nei commenti abbiamo aperto una diatriba globale sul fatto se i serpenti “mordano” o “pungano”, è stato molto comico. Ovviamente il serpente è una figura macchiettistica, tanto che anche nel video è rappresentato da una maschera. È una figura teatrale, la trasposizione degli atteggiamenti di persone infami, subdole, che strisciano. Il tutto è cantato in chiave più leggera in questa trasposizione musicale, ma questi sono per me i serpenti.
Oltre a volersi difendere, la reazione di fronte a questi serpenti è quella di voler ballare e riuscire ad affrontare l’infamità in maniera diversa da quella reazionaria della violenza. In realtà, ti dico, è un pezzo uscito così, senza troppi pensieri dietro.
I tuoi pezzi nascono in modo spontaneo, quindi.
Sì, assolutamente. Li penso e dal momento in cui butto giù la parte strumentale, in questo caso la chitarra con Jacopo Musolino, scrivo e registro subito. Sono così: se il pezzo funziona lo capisco subito, se no lo abbandono senza troppi ripensamenti. Non perché non abbia voglia di lavorarci su e far uscire qualcosa di buono, ma perché la canzone per me è corretta se nasce in modo istintivo.
Invece l’ultimo singolo uscito ha come protagonista la signora dei baci. L’atmosfera è molto vivida, c’è questo fumo attraverso il quale passi, nel circolo sottoufficiali di La Spezia. Ci sono delle difficoltà nel rendere un’atmosfera così precisa con uno stile così diverso da quello a cui eri abituato?
In realtà, come dicevo, il cambiamento sarebbe avvenuto naturalmente. Il passaggio dal rap a quello che faccio adesso – che poi non so come definire, forse “canzoni da osteria” [ride, nda] o, per essere più fini, questa sorta di cantautorato – sarebbe avvenuto naturalmente per la mia crescita. Il linguaggio del rap mi risultava limitante, proprio come vocabolario: non riuscivo a raccontare determinati avvenimenti della mia vita.
E cosa mi dici sulla signora dei baci? Chi è?
Da bambino io passavo i miei dopo scuola delle elementari in questo circolo perché mio nonno, prima di andare in pensione, era sottufficiale. Lì c’era un ambiente molto rigoroso, militare. Mi ricordo questa boiserie e in tutto il circolo c’era una sorta di riverenza nei confronti dei marinai – tranne nelle stanzette dove si giocava a carte o a biliardo, perché lì avveniva il cinema.
In tutto questo trambusto, tra marinai e chi si faceva il goccetto in più, arrivava lei: questa cofana bionda, e non nego che avevo anche un certo timore della signora dei baci. D’altronde ero un bambino, quando arrivava lei era un tornado, la sua manifestazione di affetto era avvolgente e direi anche invadente [ride, nda]. Questo è un ricordo di infanzia, ma mi sono accorto che tutti hanno avuto la propria signora dei baci. È una cosa che ci accomuna, pensavo di aver scritto un pezzo molto personale invece a ognuno ricorda una zia, qualcuno.
Sì, in quel senso parla dell’esperienza di tutti. Però un’atmosfera così particolare, con una storia del genere, è proprio tua. Proprio una storia di altri tempi.
Sì, è sicuramente nella ricerca del suono, che è ciò che ascolto io. Non è forzata, non riesco a forzarmi. Non voglio fare il vintage pacco: è così, mi viene naturale che il linguaggio musicale si sposi con quello verbale, è questo il vestito migliore che sento di poter dare a questi racconti. Non ti so dire perché, non c’è una ragione specifica.
A volte le cose succedono perché sono frutto inconsapevole di una serie di esperienze che hai fatto. Sei di La Spezia, ad Hyperlocal il talk era incentrato sulla cultura dominicana. Come ha influito per te?
Io ho avuto la fortuna – che per anni ho purtroppo percepito come sfortuna – di nascere a La Spezia. Presa coscienza e fatto il giro di boa dopo dieci anni di Milano, mi sono accorto che è stata una grande parte della mia crescita. All’epoca non c’era niente, era solo una città molto negativa, legata al timore per il bulletto, alle risse e alla paura, e anche io ero rimasto in quel turbinio da ragazzo, nel senso che il bulletto del quartiere era ciò a cui volevo aspirare.
Parallelamente, questa cosa mi ha dato la spinta di scappare da quel posto e quindi poi ho fatto il fagottino e sono andato su a Milano. Nel frattempo la città è cambiata moltissimo. Le nuove generazioni – ma già la mia – hanno iniziato ad andare fuori e tornando hanno portato il proprio know-how, il cambiamento.
E tornando alla cultura dominicana?
Io sono cambiato e mi sono accorto che tutto ciò che mi ha dato – e non dato – Spezia è stato fondamentale per la mia crescita. Uno di questi elementi è la presenza della comunità dominicana più grande d’Europa. Per me è stato naturale avere compagni di classe e amici dominicani, da sempre. Una cosa importantissima per me è che al di fuori dell’ambiente scolastico ho ballato per svariati anni e ho avuto amici dominicani con cui condividevo l’aspetto del ballo, anche per strada. Per me è tutto molto naturale e questo aspetto l’ho inconsciamente tirato fuori con Samuel Heron. L’esteticità, l’intrattenimento, il colore… a parte la parte istintiva legata a me stesso, la parte dominicana mi ha dato influenze che da altre parti non avrei trovato. Già all’epoca non ero lo stereotipo del rapper “classico”, ma non me ne ero accorto tanto era naturale. Quando andavo nei locali latini a Spezia, già nel 2009, quando facevo rap, a livello più locale, vedevo i miei amici dominicani che arrivavano con il cappello a tesa larga verde abbinato coi mocassini verdi e il bastone. Questa roba ha cambiato la mia visione dell’aspetto urbano di ciò che rappresentava il rap e l’hip hop. In Italia erano ancora tutti a braccia conserte, a guardarsi in maniera animalesca: il rap era quello.
Quando hai riscoperto il valore di questa influenza?
La riscoperta di questa ricchezza avviene nel 2021, quando comincio a capire che per me è normale, ma non lo è per tutti. Ho imbracciato la mia macchinetta fotografica e ho iniziato a scattare, per raccontare fotograficamente. Avevo deciso che non avrei mai più fatto musica e la fotografia è stato l’altro linguaggio subentrato a gamba tesa. Ho iniziato a raccontare tutti gli aspetti della comunità ed è stato naturale da entrambe le parti. Per me era naturale raccontare e per loro farmi entrare nelle case, nella loro intimità. Non è una cosa scontata perché sono molto chiusi, come noi liguri. Questo progetto ha fatto scaturire un libro, delle mostre e lo abbiamo portato in giro. Ha attirato l’attenzione di magazine di fotografia e cultura in generale, fino a che non mi sono ritrovato a fare un talk in Triennale, con Hyperlocal. Questa cosa ha attirato il loro interesse e ci hanno chiesto di portare una parte di Spezia da loro. Abbiamo portato gli elementi che secondo noi, per strada, potevano far comprendere una parte di quello che viviamo noi.
E questa passione per la fotografia è nata in un momento preciso?
Ma sai che no? Da ragazzetto ho sempre fatto foto e tra l’altro in una vecchia casa ho ritrovato la macchinetta con cui scattavo da piccolo. Sono molto ricettivo, e mi piace raccontare non solo con le parole, perché a parole non è possibile dire tutto. Questa passione ha preso piede in modo un po’ più serio nel 2019, quando ero a Milano. Quella che adesso è mia moglie ha comprato una usa e getta per un avvenimento e mi sono riavvicinato così alla fotografia. Nel 2020 mi sono trasferito a Lucca, dopo nove anni e mezzo a Milano, e i miei nonni – quelli del circolo – mi regalano questa vecchia Yashica, macchinetta a rullino. Metto un rullino e scatto la loro casa, perché sono dei tipi molto folkloristici – anzi dovrei proprio scriverci un pezzo. Qualche mese dopo faccio vedere delle foto, ma solo alcune e piccole, ad una gallerista che conosco. E così è nata la mia prima mostra, dove ho proprio ricostruito casa dei miei nonni, dando un contesto concreto alle foto. Da lì parte questa avventura.
Mi sembra che comunque non mischi mai fotografia e musica.
Non voglio fare fotografie ai rapper [ride, nda]. Un po’ è il mio approccio, quello del reportage. Mi viene naturale voler fotografare un certo genere di cose. Per ora ho fotografato un concerto solo: Fefita La Grande, che è il mio amore. Ha più di ottanta anni, suona ancora merengue, è venuta a Spezia ultimamente. Io sono pazzo per il merengue e lei è proprio micidiale.
Poi mi è capitato tramite il mio manager di Spezia, che crede non solo nella mia parte musicale ma anche quella fotografica, di scattare uno dei suoi artisti. Solo perché lo conosco e si è creato un certo tipo di rapporto, se no è difficile che scatti gli artisti: io odio gli artisti [ride, nda], per me è una categoria da eliminare. Infatti io non sono un artista, sono un artigiano – e anche un po’ paraculo [ride, nda]!