I Sadside Project sono una delle rivelazioni della musica capitolina, tra le migliori scoperte di Bomba Dischi. Nel giro di qualche anno sono riusciti a farsi apprezzare in lungo e in largo nel nostro stivale: merito di Winter Wales War, opera seconda edita ormai un paio d’anni fa, che racchiudeva in sé il paradigma sonoro alla base del duo composto da Gianluca Danaro, voce e chitarra, e Domenico Migliaccio, dietro le pelli: sana passione per il blues e i brani tirati à la Jack White, con quell’atteggiamento garage rock sporco e cattivo a farla da padrone, intermezzato da quadretti acustici. Ma adesso la band, che è maturata e si sente, sembra preferire alle rumorose dance hall americane le atmosfere bucoliche della musica acustica, specialmente di tradizione celtica. Gianluca esplora il legno della chitarra e la vibrazione della cassa armonica.
Nel disco praticamente non uso la chitarra elettrica. Non è stato scritto cercando di mantenere o meno una continuità o una coerenza con gli altri brani, quando sento che un brano suona bene in un modo, per me è quello. In questo disco quindi non sono venuti fuori pezzi blues. L’album è stato pensato in acustico, rifacendomi alle mie influenze irlandesi e scozzesi. Infatti nell’album compare molte volte la cornamusa. A parte l’organetto, l’unica cosa di elettronico è la ghost track, scritta e realizzata completamente con effetti digitali, una sorta di brano d’atmosfera più che altro.
Il nuovo percorso della band non rinnega un passato, ma si concentra su uno stile di scrittura, quello di Gianluca, che ha tanto della tradizione britannica e irlandese, nelle loro tante sfumature e riletture.
Io e Domenico abbiamo esperienze e gusti per alcuni aspetti affini e per altri totalmente divergenti. Io sono partito dal classic rock che girava a casa per poi scoprire band come i White Stripes che hanno avuto una grande influenza su di me. Nell’ultimo anno invece ho ascoltato molto sia band come i Dropkick Murphys che tanta musica classica, un bel miscuglio di stili. Per Domenico è stato fondamentale il punk hardcore. Ma per entrambi, il disco che ha segnato la svolta è stato “Is this it” degli Strokes, con quei brani lenti e quella voce distorta che ci ha fatto accostare all’alternative e al blues. Per noi scrivere musica è sintetizzare quello che ascoltiamo. E quando ti piace qualcosa, la fai tua e la reinterpreti, e ricontestualizzandola crei qualcosa di nuovo e personale. Da bambino ho avuto sempre un amore per le gighe, i bordoni e tutta la musica celtica, irlandese e scozzese. Quando partiva un violino e il ritmo in 4/4 battente, mi venivano i brividi. Me ne sono accorto grazie ai film, ad esempio durante la scena di ballo in “Titanic” o quando ne “L’attimo fuggente” iniziano a suonare “Scotland the brave”.
Musiche di terre lontane a noi, di una tradizione oltre Manica, verso oceani lontani, che riecheggia dal tempo perduto dei ricordi personali, attraverso gli ascolti di una vita.
C’è un brano nel disco, “Summer”, che parla del ferragosto. Per me quel giorno significa andare in un terrazzo a casa degli amici dei miei genitori, in un paesino della Liguria dove si radunano 20 o 30 persone e si finisce sempre con le chitarre acustiche a cantare assieme. È una cosa a cui sono affezionato, le prime canzoni ascoltate sono arrivate da lì. Volevo celebrare questo ricordo.
Ancora elementi fondamentali sono gli stopand- go e le dinamiche tra le chitarre e la batteria di Domenico, che sa come e quando picchiare e quando farsi da parte. Un disco composito, sospeso nelle pause, nei silenzi e negli spazi, tra un tuffo in picchiata e un placido lasciarsi cullare dalle onde. Il lavoro alla base di Winter Whales War si è concretizzato in un album che prende il meglio dal fratello maggiore e lo porta un passo avanti.
Ho impiegato circa sei mesi a scrivere i brani. Alcuni, come “Analogue landscape”, li ho composti quando avevo 17 anni. Ma non mi sono imposto vincoli né limiti nella stesura delle canzoni e molte si sono evolute spontaneamente. “Brotherhood” è un brano scritto appena una settimana prima di registrare, nato come pianoforte e voce. Volevo arrangiarla come un brano di Brunori sas, “Kurt Cobain”, poi facendola sentire a Domenico, come se stessi suonando una chitarra da spiaggia, mi è venuta l’idea: perché non fare la “celentanata”? E così è venuto fuori il brano, strofa-ritornello strofa-ritornello, senza assoli. Invece “Interstellar”, nessun collegamento con il film, nasceva come un pezzo acustico: lo chiamavamo “Scozia” perché la parte centrale sembrava perfetta per una cornamusa. È il risultato di due diversi brani fusi ed ha raggiunto la sua dimensione quando Andrea [Ruggiero] ha aggiunto un octaver al violino, ottenendo una sorta di bordone, così son passato dall’acustica all’elettrica e l’abbiamo reso più saturo.
Tutto intorno a Gianluca e Domenico, il lavoro di arrangiamento e produzione dei brani è maturato incredibilmente rispetto gli album precedenti. Mentre in Winter Wales War il violino arabescava qua e là, adesso la fa da padrone in molti brani.
Essenzialmente le canzoni le scrivo io, partendo da chitarra e voce. In un secondo momento assieme a Domenico realizziamo un primo arrangiamento da proporre agli altri. Claudio [Gatta, al basso], che è un polistrumentista con molto spirito musicale, interviene e aggiunge quel suo tocco che diventa indispensabile per il brano. Per le parti di violino a volte sono io a suggerirle ad Andrea, ma capita spesso che, da gran musicista qual è, riesca a tirar fuori cose dallo strumento che credevo impensabili. Non suoniamo più solamente in duo ormai.
I brani dei Sadside Project hanno un’atmosfera d’altri tempi, di paesaggi e mari lontani: uno spirito bucaniere pervade i brani, una gioia corsara che lega le canzoni tra loro e che ormai fa piena parte dell’immaginario creato dal duo.
Facciamo sempre dischi a tema, più estetico che concettuale. Però sì, alla fine è un concept album: tutto il disco sarà improntato sui racconti di Jules Verne e il tema del viaggio, stavolta inteso però come un “viaggio straordinario”. Siamo passati dal solcare le onde a sprofondare ventimila leghe sotto i mari. Non a caso, il disco doveva essere cantato in italiano; poi mi sono reso conto che non sarebbe stato coerente con la produzione precedente. Già suona essenzialmente come un dj set, cambiando anche lingua sarebbe stato troppo. Ma anche a livello artistico, metrico e sonoro ci piaceva di più. Se dovessi mai cantare in italiano farei un altro progetto.
Fedele alla tradizione e allo spirito della band, il nuovo lavoro vede anche molte guest star, partecipazioni di musicisti che prima di tutto sono amici.
Puntiamo sempre a coinvolgere più persone nel nostro progetto: i Sadside Project sono più un collettivo che una “band”, che a ogni disco, se ne sente il bisogno, cambia formazione e genere, senza limitazioni. Oltre a Claudio e Andrea, in “The dock” (forse l’unico pezzo che non ha cambi improvvisi in mezzo al brano) c’è una parte di tromba suonata da Edoardo Impedovo, trombettista dei Boxerin Club. Inoltre in “Interstellar” e “Summer” c’è Francesco Motta dei Criminal Jokers alla voce. E poi nei cori ci sono talmente tanti amici che sarebbe impossibile dirli tutti.
Questo spirito comunitario si percepisce in tutte le canzoni e nelle esibizioni della band che diventano delle vere e proprie feste, con il pubblico sempre pronto a cantare in coro.
Il nostro obiettivo è solo far ballar e divertire il pubblico. Quando siamo nel backstage, prima di salire su un palco, ci diciamo che dobbiamo suonare per far star bene noi e gli altri. Il concerto dev’essere una festa, un’esperienza collettiva, non noi che suoniamo e voi che ascoltate. Come se tutti stessimo realizzando questa musica assieme. Per questo utilizziamo così tanto i cori, per diventare un tutt’uno col pubblico. Ad esempio “Truth”, un brano dell’ultimo album, l’abbiamo scritto sul palco, quasi come un’improvvisazione: eravamo a Bologna ed è stato talmente bello che abbiamo iniziato a suonare senza uno schema e “Truth” è il risultato.
La buona musica dei Sadside Project fa venire voglia di alzarsi in piedi e cantare, con le mani che seguono il ritmo naturale della festa. Il loro nuovo album è una conferma delle tante aspettative poste sopra la band, che, intrapreso un percorso originale forse unico da noi in Italia, ha saputo svicolare ogni cliché senza perdere quella sana gioia che dovrebbe essere dietro ogni lavoro fatto da giovani musicisti.