Gli …A toys orchestra sono meritatamente una delle grandi band del panorama alternativo italiano. E non solo per la loro biografia, che li vede attraversare quasi due decenni di attività, ma anche e soprattutto per la loro produzione musicale, sempre di alto livello e sempre coerente con l’immagine della band. Mi domando allora se per Enzo Moretto, cantante e autore della band, dopo i due “midnights” (Midnight talks del 2010 e Midnight (R)Evolution, 2011) e la prima raccolta, per il mercato internazionale, del 2012 si possa dichiarare concluso un ciclo.
Si è chiuso un capitolo senza rinnegare nulla. Credo che dopo ogni disco si chiuda un capitolo. Mi piace poter ricominciare e “ricominciare” è la parola che mi fa da mantra. Non ho mai amato il concetto di “disco della maturità”, non mi piace pensare che si è quasi arrivati da qualche parte. Al contrario mi piace pensare che la strada sia ancora lunga: voglio sedermi sempre dalla parte dell’alunno e mai in cattedra. Tutto avviene sempre in maniera naturale: il mio unico modo per scrivere musica è prendere una chitarra o sedermi al pianoforte. Quello che poi veramente mi affascina e mi fa continuare a scrivere è il voler sempre cercare delle soluzioni nuove, senza affiliarmi mai a un genere. La mia scrittura vive in questa moltitudine.
Penso che tra le tante band del panorama italiano, gli …A toys orchestra siano i più internazionali, capaci di sviluppare un linguaggio musicale valido in ogni contesto. Non a caso evidentemente, il disco è stato prodotto a Berlino da Jeremy Glover, già produttore di Devastations, Liars e Crystal Castles.
Volevamo lavorare con un produttore straniero, per avere più credibilità e per proporci come band non solo “italiana”. Tra i tanti produttori con cui siamo entrati in contatto, quello che ci ha conquistato di più è stato Jeremy, che conoscevamo e adoravamo già. Jeremy vive a berlino, quindi abbiamo cucito tutto un programma intorno a quella città, che si è rivelata fantastica, con tutte le sue vibrazioni, e solo poterla vivere in quei giorni di registrazione è stato entusiasmante.
Butterfly effect, sesto disco per la band, suona diverso, nuovo, originale rispetto tutta la produzione precedente. Basta sentire l’attacco del primo brano: in “Made to grow old” dominano la scena i sintetizzatori, sui quali si imposta il nuovo suono della band, che ha saputo trasformarsi senza banalizzarsi.
Quando era finito il ciclo di Midnight (R)Evolution, c’era la volontà di ricominciare ma dandosi carta bianca, senza rifarci a stilemi utilizzati. Sappiamo che esiste una forma di scrittura riconoscibile per gli …A toys orchestra ed è l’unico elemento che lasciamo mentre spostiamo gli altri elementi in gioco. Abbiamo ribaltato i piani sonori a differenza del passato: se ieri i synth erano utilizzati come semplice arrangiamento ora la fanno da padrone; abbiamo invertito un po’ questo tipo di scenario creando un paesaggio sonoro totalmente differente. Un’altra semplice sperimentazione, quello che in fondo abbiamo sempre fatto.
Seppure sia ancora presente un grande lavoro di chitarra e il pianoforte sia spesso protagonista, come nella straziante introduzione di “Wake me up”, è proprio questo nuovo ruolo delle tastiere a destare l’attenzione, a rinfrescare il sound, modernizzandolo e avvicinandolo alle grandi produzioni internazionali.
Ne sono sempre stato amante, da ascoltatore e da musicista. Scrivendo questo disco, le bozze le ho fatte prima per pianoforte e voci e in seguito ho usato un Electribe, con cui ho riscritto la stessa canzone: ho cercato di trovare la via di mezzo e capire su quale dei lati buttarmi di più. C’era la voglia di invertire certi piani che in passato erano stati utilizzati di più. Se l’idea più naturale era di fare una ballad che in sua natura cercava un pianoforte come elemento principale, ho provato a mettere al suo posto un synth. Il felice riscontro è stato notare come il pathos non ne venisse danneggiato, quanto invece enfatizzato.
Forse come conseguenza, forse come necessità, la formazione si allarga includendo il polistrumentista Julian Barrett al pianoforte e ai synth, tanto sul disco, quanto nel tour che si prospetta alla band.
Julian è un mio amico e si è trovato a casa con me che cercavo di sperimentare su questi macchinari elettronici e spesso ci siamo trovati a suonare assieme. Questo ha fatto sì che le canzoni venissero spesso scritte a quattro mani, dopo la fase di stesura casalinga. Siamo partiti da una idea che avevamo, lui si è integrato benissimo e l’ha arricchita col suo tocco e il suo contributo.
Se il suono è nuovo, la capacità di scrivere grandi brani rimane quella. Anzi, il disco mostra una varietà sonora e una elasticità di scrittura notevole, come evidenziato dal primo singolo “Always I’m wrong”, un pop altamente ascoltabile e ballabile.
È strana come scelta, un po’ contradditoria da parte nostra: volevamo che si mettesse subito in evidenza il grande cambiamento. In fondo è la mosca bianca di un disco in cui c’è molto dramma e pathos: solo “Always I’m wrong” e “Mirrorball” sono i brani più leggeri. Da parte nostra c’era la volontà di dire che stavamo facendo qualcosa di diverso, una sorta di provocazione nel dire che il disco è pesante e serio, pieno di tematiche grevi, però sappiamo anche riderci addosso. È la canzone più ironica, dove si ripete quanto sbagli sempre tutto, ma in tono più che altro canzonatorio. Ci piaceva che fosse venuta una canzone davvero diversa nel catalogo della produzione dei Toys. Era un osare, ma la sfida ci piaceva.
Eppure la cifra stilistica rimane quella del brano intenso, drammatico, epico. Incastonata tra i due brani più leggeri emerge una perla come “My heroes are all dead”, perfetta sintesi di melodia ed epicità. L’alternanza dei registri sembra essere la chiave di volta dell’album: ballate lente, intense, sempre in crescendo (“Quiver”, “Take my place”) e brani diretti che si innalzano nel levare della batteria e dei suoni sintetici (“Mary”, “Come on, get out!”).
Ho bisogno di entrambi, perché non mi piace chiudermi in un unico umore: preferisco vivere questo mio aspetto bipolare, per poter godere di tante sfumature diverse. Si cerca di trasporre in un disco l’esperienza della vita, di fotografare quel periodo storico che poi diventa un album. Se questo fosse di un unico colore sarebbe un po’ troppo monotematico. La mia preferenza però, nel gusto e nel piacere dello scrivere, è quando mi dedico a qualcosa di più struggente, perché serve ad esorcizzare un dolore: attraverso una canzone si può avere uno sfogo immenso. Ma in fondo vale anche per i brani più energici. C’è bisogno di entrambe.
Butterfly effect sembra essere un disco narrato in prima persona, che nasconde e rivela una forte malinconia nei brani, risolta infine nella conclusiva, riflessiva, “All around the world”, a chiudere in minore un disco dai tanti suoni e sapori differenti. Un disco di opposti in eterna risoluzione: dal piano al forte, dalla luce al buio. Un buio che esiste solo in virtù della luce, come nella psichedelica copertina. Un caos sistematizzato in un eterno equilibrio.
Mi piaceva mettere in evidenza questo contrasto. Forse l’unico disco che guardava più verso l’esterno era stato Midnight (R)Evolution, dove il movimento era dal dentro verso il fuori; questo, come i precedenti è un disco che ritorna sul lato personale: un personale che si lascia aprire a molte interpretazioni, può diventare di chiunque. E nonostante questo disco abbia elementi “brillanti”, come l’elettronica o i brani
più movimentati, nei testi è molto oscuro e drammatico. Fin dal titolo si parla di caos: creare del caos anche a livello umorale era qualcosa che mi piaceva.
In fondo lo stesso “effetto farfalla”, la totale imprevedibilità del caos e delle nostre azioni, funge, se non da leitmotiv, da sottotesto continuo nell’album. L’idea che ogni nostra scelta è condizionata – e condiziona a sua volta – dalle scelte degli altri, in un continuo filo comune che ci lega tutti.
Non sono il tipo di persona capace di creare dei concept album: non si parla direttamente del “butterfly effect”, anche se questo rimane come linea guida, ramificandosi in tante divagazioni. È il tema ispirante dell’album. La teoria del caos – il famoso battito di ali in Brasile capace di scatenare uragani in Giappone – è così vera. Ogni piccolo gesto, ogni piccola scelta cambia il corso delle nostre vite. È estremamente affascinante vedere come siamo in balia del caos. E come, al contempo, siamo controllati dal caos. Che di per sé è un ossimoro.
E così, ancora una volta gli …A toys orchestra hanno il coraggio di operare una scelta: scelgono di rinnovarsi, cambiare, andare avanti. Per vedere, alla fine, che cosa riserverà il Caso. “Non a caso, Caos è l’anagramma di Cosa e Caso, giacché è il caso a far sì che il caos diventi cosa, per poi tornare di nuovo ad essere caos”.
Riccardo De Stefano