– di Giulia De Giacinto –
I Bloom sono una band nata quest’anno da un’idea di Giusy Ferreri e Max Zanotti, che ha successivamente coinvolto Roberta Raschellà e Alessandro Ducoli, tutti musicisti di grande esperienza e personalità.
È uscito oggi, 28 giugno 2024, il loro disco d’esordio, prodotto insieme a Steve Lyon e uscito per GGF Music con distribuzione ADA Music Italy. Si intitola Hangover ed è un progetto che la cantautrice palermitana ha voluto regalarsi al di là della sua carriera da solista, per esprimere fino in fondo la sua anima rock.
Ho avuto il piacere di intervistare la band per farmi raccontare di più sul progetto dei Bloom e su Hangover.
Partiamo proprio da voi. Il nome scelto per la vostra band è Bloom e significa fioritura. Questa parola fa pensare all’essenza di un nuovo inizio.
Giusy Ferreri | Assolutamente sì. È una scelta che abbiamo condiviso tutti: cercavamo un nome molto positivo e qualcosa che fosse di contrasto rispetto alle sonorità che abbiamo proposto, per non incupire il senso di questo progetto, che in realtà vuole essere liberatorio e di nascita. Non c’è niente di più veritiero e profondo della nascita di un fiore.
Giusy, tu sei passata da una dimensione mainstream a una completamente diversa, deviando drasticamente dal pop e con una vocazione molto più autoriale e incentrata sull’espressione artistica. Qual è il motivo di questa scelta e in che modo è stata portata avanti da Max, Roberta e Alessandro?
GF | Questo era il mio sogno nel cassetto sin quando ero ragazzina. A vent’anni mi proponevo alle case discografiche con qualcosa che avesse un’attitudine più rock e cantautoriale, però non ho mai avuto tanta considerazione. Questa è arrivata quando, all’età di ventinove anni, mi sono predisposta ad un altro tipo di apertura, per non buttare via tutto. L’esperienza a X Factor mi ha dato la possibilità di confrontarmi con tante persone nuove, ed è stato un grandissimo valore aggiunto considerare me non più solo per quello che mi ero prefissata, ma anche come interprete. Ho cercato di liberarmi da quella prigione interiore per la quale se quello che facevo non andava realmente come desideravo io non si poteva far nulla. Invece devo dire che ho fatto un percorso bellissimo, del quale mi ritengo molto fortunata, persino superiore alle mie aspettative ai tempi dell’esordio.
A spizzichi e bocconi, negli anni ho sempre cercato di introdurre qualcosa di personale. D’altra parte ho avviato delle collaborazioni, con un’attitudine ancora più fresca, che, per un motivo anche di credibilità, hanno limitato il mio lato artistico più personale. A quel punto ho pensato che ritornare alla mia idea degli esordi di formare una vera band, in cui si fa ricerca musicale e ci si confronta stilisticamente con dei musicisti, fosse una grande opportunità. Quindi mi sono rivolta a Max Zanotti, perché lo conosco da anni e lo stimo tantissimo. Dal nostro confronto è nata questa idea; mi ha presentato poi Alessandro e Roberta, che mi hanno sottoposto le prime loro reazioni strumentali: mi sono sentita perfettamente a mio agio; poter liberami nei testi e nelle melodie attraverso le loro musiche era quello che desideravo.
Fare un album come questo, che appartiene a un genere musicale distante dal mainstream e dalla musica tipicamente commerciale, è una scelta coraggiosa, che si può anche intendere come un’affermazione della propria libertà artistica. Quanto è importante per voi andare fuori dagli schemi e cosa vi ha spinto a realizzare questo progetto?
GF | Per me è liberatorio e coraggioso, anche se non significa abbandonare l’altro mio percorso artistico, del quale sono molto grata. Mentre Max, Roberta e Alessandro sono rimasti fedeli a quello che hanno sempre fatto, per cui il loro coraggio e soprattutto la loro credibilità sono sempre rimasti tali. Non è una cosa controcorrente per me, ma lo è rispetto a quello che ascoltiamo noi abitualmente, a quello che funziona oggi in Italia. Noi siamo rimasti nel nostro mondo e nei nostri ascolti.
Roberta Raschellà | Aggiungerei che è lontano dal mercato mainstream italiano. Nel mercato mainstream internazionale, infatti, ci sono tutti i generi musicali. Noi facciamo quello che ci viene spontaneo.
Venendo all’album, Hangover è un disco introspettivo, dalle sonorità e dai testi dark, che affonda le proprie radici in atmosfere rock alternative. A quali sensazioni vi ispirate e cosa vi suscita il fatto di fare questo tipo di musica?
Alessandro Ducoli | Queste atmosfere derivano da quello che ascoltiamo. È stato naturale: noi ci siamo sempre ritrovati a casa e con questo progetto ci siamo rimasti, perché abbiamo sempre suonato e ascoltato questo genere di musica.
GF | Io ho vissuto tutti gli anni ‘90 con le mie prime cover band, perché erano gli anni in cui emergevano realtà come i Nirvana, gli Stone Temple Pilots e i Pearl Jam. Mio padre ha masticato tutta la musica, italiana e internazionale, ma anche la musica prog e per cui nei nostri ascolti non mi sono mai mancate tutte le realtà attinenti al rock internazionale, fino a quella più sperimentale: per me è sempre stato un motivo di grande sfogo. L’ho messo da parte e l’ho voluto ritrovare a distanza di anni e condividerlo con delle persone che, al contrario, sono sempre rimaste orientate sotto questo aspetto artistico.
Max Zanotti | Secondo me il percorso artistico di Giusy è puro e intatto all’interno di un genere che non l’ha rappresentata tanto nella sua carriera. Già sentivamo che nel suo percorso da solista c’era un’impronta rock. Questo è quello che ci ha fatto stare tranquilli nel momento in cui avevamo scritto le prime basi e gliele avevamo sottoposte; eravamo sicuri che sarebbe arrivato qualcosa di bello.
GF | Ogni base mi ha dato delle sensazioni molto belle: sono riuscita a far fluire liberamente e in maniera viscerale tutto quello che volevo esprimere. Stavo pensando ad un progetto che non dovesse per forza portare il sorriso, ma che fosse una sorta di psicanalisi personale. Volevo sprigionare qualcosa di risolto tra me e me e, grazie alle loro musiche, sono riuscita a farmi questo “corso psicologico” per poter esternare tutto in maniera molto sincera, nella speranza che potesse rispecchiare un percorso che, umanamente, ogni ascoltatore fa nella sua vita.
Hai espresso la tua parte più introspettiva.
GF | Sì, purtroppo la stavo soffocando un po’. Nei primi album riuscivo ad introdurre brani come Niente promesse, che avevano in parte queste caratteristiche. Anche se erano scritti totalmente da me e arrangiati in chiave rock, non avevano questa sensibilità e profondità vera, frutto di una grande ricerca. Negli ultimi tempi avevo messo un po’ da parte brani come La bevanda ha un retrogusto amaro e avevo voglia di ritirarla fuori con una formula più coerente.
Che significato ha il titolo Hangover? Da dove viene?
GF | Hangover vuole racchiudere il senso e il significato di ogni testo; anche i titoli sono un po’ strambi, come Crisi di astinenza, piuttosto che Il mio stile noire, che suona un po’ come una vendetta.
Hangover, nel senso metaforico dei postumi di una sbornia, psicologicamente smuove un meccanismo viscerale di sentimenti, abitualmente trattenuti, che in quei momenti esplodono e possono essere espressi liberamente.
Ad aprire il disco è Mai più, canzone impeccabile e, a mio avviso, perfetta come lead single dell’album. Com’è nato questo pezzo?
GF | Mai più è il primo brano che ho scritto. Da lì emerge una volontà di non pensare a un percorso di vita che alla fine ti lasci il dubbio di non aver fatto ciò che realmente tu volevi fare. Non a caso il testo dice «meglio fottersi» e non tralasciare ciò che per te è importante. Quindi non pensare a un discorso di credibilità o non credibilità, ma fare quello di cui si ha veramente voglia. Tra l’altro è nato in un periodo nel quale ho guardato in una notte intera Mercoledì, e ho preso ispirazione da quelle suggestioni un po’ macabre.
È la verità invece è il brano che ha anticipato l’album e che è stato presentato per la prima volta sul palco del concerto del Primo Maggio. Che riscontro ha avuto questa traccia?
GF | Non è arrivato a un vasto pubblico: ancora oggi quando mi ritrovo in giro per strada a chiacchierare, mi chiedono quello che sto facendo ultimamente, quindi evidentemente quest’informazione non è passata tanto. Il fatto che al concerto del Primo Maggio ci fossimo esibiti di pomeriggio non ha giocato a nostro favore. Ho capito che è passato un po’ in sordina. Un po’ ce lo aspettavamo, per il tipo di sonorità e per l’obiettivo particolare di questo progetto liberatorio, lontano dalle caratteristiche di una hit estiva. Speriamo tantissimo in un percorso live; adesso io sono impegnata nel mio tour estivo, ma successivamente ci dedicheremo anche a quello. Le persone che hanno avuto modo di ascoltare È la verità sono rimaste molto incuriosite e hanno apprezzato tantissimo anche la parte strumentale, di elevata qualità artistica. In particolare è stata apprezzata tantissimo la parte di Alessandro alla batteria. Per cui so che c’è tanta gente comunque curiosa di ascoltare il resto dell’album.
AD | La cosa che mi ha colpito di più di questo progetto è stata la libertà artistica che ognuno di noi ha avuto di potersi esprimere. Per quanto mi riguarda, con la batteria non ho avuto nessun vincolo. È una cosa alla quale sono abbastanza abituato; ho sempre lavorato nelle band in maniera totalmente libera. Però è stato divertente, perché mi ha dato l’ennesima conferma che, quando si è liberi di potersi esprimere con il proprio strumento, significa che le cose hanno preso una giusta direzione.
A parte le atmosfere rock trascinanti ed energiche che le accomunano, c’è un filo conduttore che lega tutte e dieci le tracce di questo lavoro?
RR | Secondo me è la sincerità: nel disco ci sono tante sfumature, perché noi abbiamo quattro personalità simili ma diverse. Per cui ognuno di noi ha scritto seguendo la propria identità. Ci siamo anche scontrati, perché le band fanno anche questo, per poi raggiungere un punto di incontro. Ognuno di noi è abituato a scrivere anche da solo, seguendo la propria scia; mentre quando si è in quattro bisogna sottoporre quello che si è scritto e trovare una linea comune. Tutto ciò porta anche a degli scontri, come è giusto che sia, come in una relazione vera. Ci si confronta per arrivare a un obiettivo comune; quindi secondo me il filo conduttore che lega tutte le tracce è la sincerità.