Elettronica che molto ricorda le aperture pop di un Battiato della sua vita pop e quel suono che tanto strizza l’occhio a direzioni world. La mistura che ne vien fuori ha quel fascino di vita vissuta, quel modo di cantare che ci tiene a fissare le chiuse delle parole e a renderle pregne di significato, un modo che rimanda a quel cantato evocativo di Fossati e non ci starebbe affatto male la sua firma vocale su molte di queste canzoni. Roberto Grossi fa il suo esordio personale con un disco dal titolo “Le stelle della sera” dentro cui la matrice rock non si lascia attendere ma di certo è il cantautore che viene fuori, con liriche pulite, dense di visioni e allegorie ma mai distanti, anzi popolari, anzi liquide. E tutto questo si celebra a pieno nel mio punto più alto dell’ascolto: “Genova” dove troviamo impegnato anche un Fabrizio Casalino. Quei riverberi lunghi che adornano tutto l’ascolto del disco e richiamano una certa produzione alla Mango e quel tempo ormai antico di pop futuristico degli anni ’90. E che belle sensazioni di terra e di quartiere antico dentro “Neve” che firma con Chiara Buratti per un brano davvero libero, di aria, di libertà e di aperture in maggiore con cui viaggerei dentro belle giornate di luce buona.
E un poco le coralità spese dentro “I nostri fari spenti” che Grossi firma con Lorenzo Monguzzi dei Mercanti di Liquore (interviene anche la cantautrice bolognese Helle che cura la direzione artistica di tutto il lavoro), e un poco anche quella scrittura che si rende distopica sembra strizzare l’occhio a quella scena indie dentro cui è padrone Vasco Brondi se non fossero dettagli di drumming e suoni assai aperti. L’elettronica e il futuro si rende spietato e quasi ci porta fuori pista nella traccia finale “Quale uomo”, brano che mai si sviluppa in dinamiche accese ma sempre resta fermo in colori scuri dentro cui il rigetto e la denuncia verso una società ottusa, ormai saldamente povera nel suo maschilismo. Ho dato solo fotografie di questo primo disco personale di Roberto Grossi, disco di vedute futuristiche nei suoni che però mai abbandonano radici di un pop italiano di grandi classici. Non è innovativo ne rivoluzionario. È un disco sincero, di riflessioni e di parole ben misurate. Uno di quei lavori che non modificano il corso delle abitudini radiofoniche, uno di quei lavori che richiede attenzione e ascolto perché la narrazione, come Helle ci insegna, torna ad essere qui il vero protagonista. Fate attenzione a non perdere la bellezza…