Nevermind the tempo o “fregarsene di tutto e tutti e fare un disco come ci pare”: il nuovo album degli I Hate My Village.
– di Roberto Callipari –
Inizio, svolgimento e fine. Scegli un tema, una tesi da portare avanti, tre o quattro punto che avvalorino quella tesi e l’articolo è fatto. Metti una bella chiusa, qualcosa che faccia venire voglia di sentire il disco e che magari, durante l’ascolto, faccia dire:”Ma sai che forse aveva ragione?“. La teoria su come raccontare un disco è tutta qui, semplice ed efficace.
Poi arriva il nuovo album degli I Hate My Village e un attimo mi fermo. Normalmente ci sono sempre, da subito, quelle tre o quattro cose di cui sopra, quei punti che, dal primo ascolto, mi fanno pensare che è da quelli che voglio partire. Ma le cose sono più complesse ora.
Nevermind the tempo è un viaggio, e non è un disco facile. Non lo è per molti motivi, innanzitutto per la logistica: come ci raccontavano gli artisti stessi, mettere d’accordo quattro persone sparse in giro per l’Italia è già, di per sé, un lavoro. Non è un disco facile perché, forse più che nell’esordio omonimo del 2019, il passato di ognuno degli interpreti ha un peso specifico maggiore in questo lavoro. Sono ampi, sembrano ampi, i momenti in cui le influenze di ognuno di loro si vanno a stratificare nella costruzione di un lavoro che parte già così personale. Ma non ne stiamo parlando male, anzi: la personalità esce fuori perché è un disco libero, un disco che vuole essere suonato e viene suonato per amore della musica, di quella musica che a Rondanini, Viterbini, Fasolo e Ferrari ha già dato tanto e continua a dare tanto ogni giorno.
L’approccio, comunque, è particolare, difficile, se vogliamo. Non perché sia un disco brutto, tutt’altro, ma perché – e mi espongo totalmente nel dirlo – è un disco del quale è anche difficile parlare se non lo ascolti davvero. Un po’ come andare al cinema e pensare di poter parlare di un film se ti sei perso la trama: Nevermind the tempo ha la sua linea, ha la sua anima, che è di ricerca, di sperimentazione, che va rispettata, accolta e, a un certo punto, cercata, prima che possa riempire appieno tutti i pori mentali addetti all’incamerazione di qualcosa del genere.
Non è un disco facile perché, contrariamente a quanto succede ultimamente nel panorama musicale tutto, è un lavoro che si prende la libertà di non essere perfetto, e non nel senso di mettere nelle mani – o meglio, nelle orecchie – di chi lo ascolta un album non finalizzato, indefinito o impreciso, ma è imperfetto nella dimensione in cui si disinteressa di suonare secondo certi canoni, si rifiuta di sottostare a dei crismi che, altrimenti, lo strozzerebbero in quell’imbuto in cui tutto, davvero tutto, ultimamente finisce.
In un momento storico in cui gli album hanno tutti lo stesso suono, indipendentemente dal genere o dal luogo da cui provengono, gli I Hate My Village stabiliscono il loro suono, che non è nemmeno loro o coerente a se stesso per l’intera durata dell’album, perché di traccia in traccia cambia, cresce, gioca e si diverte in questa mutevolezza. Variabile e quasi aleatorio, il suono scherza quasi con l’orecchio dell’ascoltatore dopo aver solleticato la fantasia degli artisti, si forgia da qualcosa di sporco e impreciso uscendone comunque stranamente coerente, come dei guru che ristabiliscono l’ordine dal caos.
Nevermind the tempo in questo senso è un lavoro molto mentale, nella forma in cui è prodotto e nella forma in cui è ricevuto. Poi sicuramente la spontaneità la fa da padrona, ma il dover estrapolare qualcosa di senso da qualcosa che senso non ne ha, la casualità, è un lavoro che ha a che fare col mistico da un lato e con l’archivistico dall’altro, un’opera di giocoleria fra i mood e i suoni che, forse, solo a musicisti di quest’esperienza era possibile.
Detto questo, che è tanto e forse anche troppo, restano solo le stronzate. Nevermind the tempo è un bel disco, ma lo sapevamo tutti prima ancora di sentirlo, prima ancora di leggere le mie parole che, diciamolo, servono davvero a poco. Soprattutto perché, come sempre, è già la musica a parlare da sé, proprio come nel nuovo album della band di Tony Hawk of Ghana, che non chiede nient’altro di avere il suo tempo per entrarti dentro.