Quattro amici, quattro appassionati di musica: gli I Hate My Village raccontano il loro nuovo disco Nevermind the tempo.
– di Roberto Callipari –
Nevermind the tempo è il nuovo album degli I Hate My Village, band all star del nostro panorama musicale che torna con un nuovo album a distanza di cinque anni dal precedente. I quattro, che sono Fabio Rondanini, Adriano Viterbini, Marco Fasolo e Alberto Ferrari, tornano con un disco che è un viaggio, un vagare nei suoni per correre nei luoghi della mente, alla ricerca di quello che per loro è la musica. Ci facciamo raccontare meglio l’itinerario da Adriano, Fabio e Marco, intercettandoli in pausa pranzo durante l’allestimento di un tour che si preannuncia caldissimo.
Come fanno a coesistere identità artistiche così diverse? Perché in questo disco mi sembra, più che nel precedente, che i vostri percorsi abbiano influenzato molto il lavoro…
Fabio: è interessante, onestamente non ci avevamo fatto troppo caso. Le quattro personalità convivono tranquillamente, un po’ perché il contenitore è molto ben definito e rimaniamo in quel recinto, e poi perché siamo tutti molto fan l’uno dell’altro, quindi più è personale e più ci piacciamo.
Marco: forse è perché essendo il repertorio un po’ più diversificato e un po’ meno omogeneo probabilmente ci si è presi un po’ più, si è spaziato di più e ognuno di noi esce fuori un po’ di più.
Adriano: diciamo che con questo disco sicuramente abbiamo fatto qualcosa di diverso rispetto al precedente, perché c’è molta voglia di stupirsi e stupire quando facciamo qualcosa del genere. Se il primo disco era il frutto di quella fascinazione per la musica africana, partita in tempi non sospetti e certificata dall’incontro con Fabio nel 2014, questo disco qui risente del fatto che ci siamo influenzati fra di noi, del fatto che abbiamo tutti qualche anno in più e che cerchiamo probabilmente dalla musica qualche cosa di astratto che ci stupisca, ci sorprenda, e spesso queste cose qui le troviamo negli errori, nelle imperfezioni e nello scontro totale fra i generi, e probabilmente abbiamo registrato quello che avremmo voluto ascoltare e non riusciamo a trovare attraverso gli algoritmi di Spotify. (ride, ndr)
L’impressione che si ha ascoltando il disco è che vi siate molto divertiti registrandolo…
Fabio: sì, ci siamo divertiti molto anche se è stato un lavoro molto più faticoso rispetto al primo, più lungo. Però sì, alla base c’è molto divertimento, sennò non saremmo qui. È un disco che nasce da delle jam, dal divertimento del momento, anche se poi è un lavoro che va avanti a lungo nel tempo: ci siamo visti una volta al mese a Brescia per più di un anno, ed è un lavoro un po’ più prodotto rispetto al precedente, che era un’istantanea del momento, un ibrido, mentre per questo siamo partiti direttamente dalle canzoni.
Fate tutti molte cose e avete tutti progetti esterni, quindi la domanda viene spontanea: a livello logistico, come lavorate per gli I Hate My Village?
Marco: abbonamento Trenitalia! (ridono, ndr)
Fabio: io e Adriano viviamo nella stessa città, quindi ci vediamo spesso con una certa facilità. Una volta raccolte le idee siamo andati in studio a Brescia da Marco e dopo abbiamo mandato il materiale ad Alberto. Alla fine ci dividono solo un paio di treni…
Dite che è un disco molto più prodotto, e infatti l’impressione è che ci sia un repertorio di suoni più ampio rispetto al precedente, anche di ciò che esula dalla musica, ciò che è più noise.
Adriano: c’è un po’ più di degrado.
Fabio: vero.
Adriano: sai, siamo anche nella golden age dei pedali, degli effetti, quindi tutti abbiamo sotto mano delle robine che producono subito musica, qualcosa che… se entri in un microlooper con la chitarra quello ti suggerisce qualcosa. Ora, noi giochiamo sostanzialmente, nessuno di noi è troppo affezionato al suo strumento e al suo suono, siamo un po’ dei surfisti della musica, e ci piace provare delle soluzioni che probabilmente, boh…alcune cose sono proprio dei provini, delle cose che abbiamo registrato con Fabio come in un raptus artistico, quindi anche la frenesia di usare l’effetto appena comprato è rimasta nell’album. E quando siamo andati da Marco a produrre l’album, e quindi a pensare a quali potessero essere le cose da salvare o da togliere, ci siamo resi conto che tanta sporcizia, tante cose casuali in realtà aiutavano l’ascolto, e le abbiamo lasciate.
È un disco in cui la parte ritmica, molto spesso, va anche sopra la parte melodica.
Fabio: lo posso capire, in alcuni momenti più che in altri, ma è un disco molto vario. È un disco meno “di riff”. C’è stato parecchio lavoro di produzione ma anche di montaggio. Ci sono molte meno chitarre…
Adriano: spesso non c’è il suono canonico della chitarra.
Fabio: è un disco più di synth.
Adriano: Ci stanno molte più chitarre rispetto all’altro disco, però la chitarra è spesso pensata come se fosse un altro strumento. È molto diverso rispetto all’altro disco, e per questo prima dicevo che non c’è gelosia da parte mia rispetto al mio strumento, ad esempio.
Fabio: poi sai, avere strumenti nuovi che fanno suoni nuovi ti fa suonare un po’ come se fosse la prima volta, in qualche modo. Era sempre tutto un po’ da capire, le cose ci sfuggivano anche un po’ di mano, piacevolmente.
Adriano: ci sono cose che succedono a un certo punto e le fai andare. È più legato al divertimento. Quando eravamo in sala e abbiamo capito che avevamo il nostro loop col nostro algoritmo che ci permetteva un certo tipo di musiche abbiamo deciso, consapevolmente, di cambiare strada. Sono quelle cose che probabilmente un artista furbo avrebbe cavalcato (ride, ndr), per provare a trovare un’identità e stabilire un confine. Invece per noi, che siamo più liberi e viviamo la musica nel profondo, ci siamo affidati all’istinto.
Siete stati definiti una superband. Qual è la vostra idea? Perché ad oggi questo termine ha una forte accezione…
Fabio: no, a noi non piace molto in realtà.
Marco: io non posso più uscire di casa, ti dico solo questo! (ridono, ndr)
Adriano: è più una boyband!
Fabio: no, io lo capisco che è una sintesi, che tra l’altro in qualche modo ci lusinga anche eh, però non era quella l’idea, non era unire il pubblico di ognuno e riempire i posti, è tutto spontaneo, è veramente una band! Ci divertiamo, ci piace, ci spendiamo molte più energie di quante se ne spenderebbero in un progetto “momentaneo”.
Adriano: se ci fossimo conosciuti al liceo probabilmente avremmo fatto lo stesso gruppo.
Fabio: c’è una grande voglia e un grande lavoro dietro, in ogni caso. Altrimenti sarebbe solo molto complicato, anche per un discorso meramente logistico.
Come si lavora a un disco del genere? Si parte e si prende una direzione o la jam è andata molto libera?
Fabio: siamo stati molto liberi. Il secondo singolo estratto, Water tanks, è nato in sala. Dopo la prima take c’era già la linea melodica e il giro di basso e batteria. Poi abbiamo aggiustato la melodia, unito due idee che erano uscite fuori da quella session… Riflettevamo oggi che è un disco in cui i pezzi sono molto strutturati e che abbiamo lavorato molto su quello più che sui ritornelli, per dire.
State preparando un tour. Cosa ci dobbiamo aspettare?
Marco: ‘na caciara! Speriamo che sia un esorcismo! Ovviamente ci siamo divertiti, ma è costato molto impegno, e quindi secondo me suonare ci libererà, sperando che questa sensazione arrivi a chi ci ascolterà. Dobbiamo tornare a quell’embrione iniziale, che è la scintilla del progetto, alla voglia di spaccare tutto divertendoci.
Fabio: ci sta, sì.
Progetti futuri degli I Hate My Village?
Adriano: al futuro non vai incontro, è lui che ti si sbatte in faccia.
Fabio: massì, ora siamo talmente dentro… siamo super concentrati. Però torneremo con grande voglia di lavorare a nuove idee, che magari arriveranno già in tour
Marco: io nel futuro degli I Hate My Village vedo un bel caffè!
Nevermind the tempo, uscito il 17 maggio con Locomotiv records, è una nuova visionaria pagina nel racconto folle degli I Hate My Village. Ve ne abbiamo parlato anche qui, dando la nostra interpretazione di un lavoro davvero fuori dalle categorie.