– di Anna Rescigno –
Sethu, nome d’arte Marco De Lauri, è un giovane cantautore ligure che ha appena pubblicato tutti i colori del buio, il suo primo album ufficiale, interamente prodotto dal gemello Jiz e uscito per Carosello Records. L’artista ha all’attivo una partecipazione a Sanremo nel 2022 con il brano Cause perse e l’EP omonimo che ne è seguito. Sethu si esibirà al MI AMI Festival venerdì 24 maggio, sul Palco Jack Daniel’s.
Abbiamo partecipato alla tavola rotonda che è stata organizzata per far sì che rispondesse a qualche domanda nostra e di altri giornalisti. Ecco che cos’aveva da dirci!
Raccontaci un po’ com’è nato questo album.
Quest’album è nato… mi sembra un’interrogazione di storia 😊. È nato nel periodo post-Sanremo, con più precisione dal settembre dell’anno scorso ed è stato concepito tutto in cinque/sei mesi, durante un periodo di down. Sanremo per me è stato il periodo più bello della mia vita, dove ci sono state più luci (letteralmente). Ma poi invece da settembre, forse proprio per questo, mi sono dovuto riconfrontare con problemi di salute mentale che avevo un po’ trascurato, e che poi hanno portato al mio ritorno in terapia, e poi alla scrittura di tutto l’album, che affronta molto queste tematiche, che mi sono molto care. È stato scritto tutto, un’altra volta, con mio fratello Jiz (scritto da me, e interamente prodotto da lui), un po’ come ai vecchi tempi, tutto in cameretta, io e lui, tornati a quella situazione lì. Ci faceva sentire più a nostro agio rispetto ad andare in studi grossi, che ti mettono un po’ l’ansia. Quindi è un disco molto personale, e dal punto di vista di sound molto vario, e l’ho voluto chiamare tutti i colori del buio proprio per questo: quando guardiamo gli altri, e specialmente gli stati mentali come la depressione o l’ansia, tendiamo molto a stigmatizzarli e paralizzarli come un unico blocco nero. E invece voglio, con questo album, trasmettere che ci sono diverse cose che succedono all’interno di determinati stati d’animo, c’è tanta varietà. C’è la rabbia, la tristezza, la speranza, la rassegnazione. E nel sound c’è tanta varietà proprio per questo. Però è tutto collegato da un unico filo rosso che siamo io e mio fratello che affrontiamo un’altra volta i nostri cazzi mentali, le nostre difficoltà.
Lo so che tu non puoi parlare per gli altri, però ci sono tantissime canzoni e persone che scrivono di tematiche di salute mentale. Secondo te è perché stiamo tutti così male o perché prima si tendeva a non dirlo e a non esprimerlo con le canzoni?
Adesso si comincia da più giovani a curarsi e ad affrontare percorsi. Per me è un bene, perchè sono sicuro che affrontando certe cose da giovani, da più grandi sapremo essere più coscienti di noi stessi. C’è chi dice che sono le malattie del secolo, la depressione e l’ansia. Un po’ è il periodo storico: sui giovani c’è pressione di realizzazione e soprattutto di migliorare quello che c’era un tempo, ma al contempo siamo in una situazione dove c’è il cambiamento climatico da una parte, e dall’altra siamo in una condizione sociale dove, per fare quello che hanno fatto i nostri genitori prima, devo faticare molto. Per arrivare a quello che mio padre ha fatto per me, devo migliorare. Nasciamo già ansiosi, un po’ per la realizzazione, un po’ perché c’è un futuro incerto. Le malattie vengono scoperte perché si avanza. Molte più persone si curano e diventano coscienti di queste cose, e decidono di aiutarsi, e farsi aiutare.
Hai qualche nuovo tatuaggio da Sanremo?
Sì, scusa mamma. Ne ho due nuovi che significano “nuvola” e “nero” (sempre felice). Li ho fatti un po’ per questo album.
troppo stanchi l’hai scritta un po’ di anni fa, e hai deciso di inserirla nell’ultimo album. C’è un parallelo con i ragazzi perduti? È un percorso che ritieni ancora tuo? E cosa noti di diverso?
troppo stanchi è l’unica canzone che non è stata scritta negli ultimi mesi. Pur essendo di due anni e mezzo fa, mi corrisponde ancora, nonostante siano successe tutte queste cose, il ritorno in terapia… Il ritornello dice siamo troppo stanchi per la nostra età. È una cosa che spesso mi dico, nel bene e nel male. Un po’ perché mi dico: «Dovresti fare di più, dovresti bruciare il mondo». Però a volte, emotivamente, mi sento un po’ stanco. Ho deciso di includerla perché devo ancora accettare questa cosa. Questa sarebbe stata la canzone che avrei portato a Sanremo se non fossi andato con Cause perse. Non mi avrebbero neanche preso magari. E l’album prima di chiamarsi così nella mia testa si chiamava troppo stanchi. È uno slogan che mi appartiene un po’ sempre.
E il percorso che hai fatto di ritornare nella cameretta, ha portato una sorta di rassicurazione emotiva?
Sì, io sono un amante delle zone di comfort, le cerco sempre. Sono voluto tornare lì dove sento veramente di poter dire tutto. A volte quando ti trovi in studio, l’ansia di fare non ti fa esprimere le cose senza filtri. Invece con mio fratello è più intimo. troppo stanchi e i ragazzi perduti sono pezzi molto intimi per me. Ma è perché io sono un po’ complessato, ci sono tanti artisti che quest’ansia invece la trasformano bene. Io a mio modo lo sto imparando. Ma a volte bisogna ritornare al semplice motivo per cui hai iniziato a far musica.
Ritornando al verso di prima («Siamo troppo stanchi per la nostra età»), penso che in molti ci si ritrovino. È un disagio generazionale. Hai trovato una via di fuga dai periodi bui che ti senti di condividere con chi ti ascolta? Questo album per te è stato in un certo senso terapeutico, ti ha aiutato scriverlo? Sei riuscito a esorcizzare qualche paura concependolo?
Io penso che questo lo capisci quando inizi a fare terapia. Per certe cose non c’è una bacchetta magica. La cosa che vorrei fare con la musica non è risolvere, dare una soluzione, ma far vedere che io sono come tanti, così da renderci conto insieme che stiamo così, rassicurarci e aiutarci in questo periodo, sensibilizzandoci a vicenda su certe cose. Siccome ho iniziato ad aver problemi che ero molto piccolo, e mi sono sentito tanto solo per tanto tempo, la cosa che mi ha aiutato è stata quando altri ragazzi venivano a dirmi «Guarda che anche io mi sento così». E quindi vorrei fare questo con la musica. La mia via d’uscita la sto ancora cercando, lo ammetto. E quindi aiutiamoci; questo è il mio messaggio oltre la musica. Poi io sono solo un ragazzo che fa musica in cameretta, non voglio essere un santone.
Tornerei a Sanremo. Un’arma a doppio taglio, specialmente per chi è nuovo al grande pubblico, e quell’anno furono sei le nuove proposte a passare tra i big. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza nel complesso, e cosa ti ha tolto? E quale prezzo hai pagato per far parte di quel meccanismo di grande vetrina, che mastica e rigetta?
Te ne parlo in modo molto realista. Io fino a un mese prima lavoravo, facevo un lavoro che non mi piaceva, e nel mentre provavo a farcela con la musica. A Sanremo ho avuto l’occasione di poter vivere di questo per un po’ (e speriamo che duri il più possibile). Questo mi ha dato Sanremo: ho iniziato a poter credere al cento per cento in quello che facevo. E quindi sarò sempre grato a questo periodo della vita e a chi mi ci ha portato. La verità è che ci sono tanti artisti, è impossibile pretendere che tutti siano con gli occhi puntati su di te. D’altra parte, io arrivavo veramente da semi-sconosciuto, non ho pensato a queste cose perché nella mia testa non sarei mai arrivato lì, e anche solo essere lì era il top. Io da lì ci ho solo guadagnato. Ho avuto anche la possibilità di accelerare il processo. Mettendo l’acceleratore, però, ti arriva una caterva di roba addosso. Io prima di andare a Sanremo non avevo mai cantato con gli in-ear, ad esempio. Imparare queste robe tecniche a Sanremo è stato pesante. L’ho affrontata al meglio delle mie possibilità. Il resto per me è stato tutto di guadagnato. Ho imparato tanto da quei mesi in cui sono stato ogni giorno in sala prove, per colmare tutte le mie lacune. Sono andato lì sul palco, me la sono vissuta con mio fratello, l’ho abbracciato. Il periodo più bello della mia vita. Durante Sanremo c’è tanta macedonia, però è una bella macedonia. Ci sono più spunti rispetto a un tempo. Ci sta, mi piace.
È molto interessante che tra le varie influenze musicali dell’album ci siano anche le colonne sonore dei film italiani horror anni Settanta. Si sente particolarmente nello switch in Sottopressione (non mi avrete mai). Come vi è venuta quest’idea di unire punk e horror? Siete appassionati del genere?
Sì, nel mondo del pop o del mainstream l’estetica horror non è una cosa tanto comune. Però da dove veniamo noi, nei gruppi rap di Savona, è una cosa che si faceva sempre. Noi siamo fan da sempre dei B movies, dei registi anni Settanta/Ottanta, di quell’estetica del brutto ma bello. Siamo fan delle cose dark in generale. Dove ci stiamo andando a mettere noi, nel mondo più mainstream, non sono conosciute a tutti, ma per noi sono cose interiorizzate dai tredici anni. Io ho un botto di magliette con le robe macabre. Non per dire che sono un pazzo, ma sono un po’ affascinato dall’horror.
Le urla alla fine di sottopressione sono tue?
Sono mie. Le ho fatte io per dare quel senso di aaaah.
Il titolo è tutti i colori del buio, quindi il dolore esistenziale ha a suo modo un’immagine. Riusciamo a vederci qualcosa nel buio. Dal punto di vista più introspettivo possibile, Sethu nel buio cosa ci ritrova?
Spesso quando sei in un momento buio non è facile neanche guardarsi da fuori e accorgersi che sei in un momento buio. Per questo ho sottolineato tante volte che farsi aiutare per me è fondamentale. Vederci qualcosa è molto complesso, se non hai qualcuno che ti tende una mano da fuori e ti dice: «Guarda, questo sei tu in questo momento. Guardati un attimo, guarda come stai». Più che cosa vedo nel buio, io ho visto chi o cosa ti tira un po’ fuori (mio fratello, la terapia, le persone che amo). Farsi aiutare non è facile perché vuol dire ammettere che non ce la faccio da solo. Stare nel buio ci sta. Poi devi aver la forza di dire: «Non ce la faccio da solo».
Salute mentale ma anche manifesto generazionale. C’è tanto spazio a quel disagio dei ventenni che non si trovano aderenti a una realtà. Considerando tutti i messaggi che possono arrivare da questo album, che processo stai affrontando di “separazione” dalla storia che c’è nell’album, che immagino sia fatta di tanta carne viva, per darla agli altri?
Di solito gli album li fai sparsi in tanto tempo, mischi tante robe. Io l’ho scritto tutto in cinque/sei mesi e quindi ci sono canzoni che sono letteralmente ferite aperte. Ci sono pezzi, tipo i ragazzi perduti, che non vorresti che tua mamma sentisse. Farlo live sarà difficile. Sono nel processo in cui sto guarendo da certe ferite di cui mi sono un po’ accorto. Senza fare il melodrammatico, è anche bello che sia così, che non abbia ancora risolto niente. Non sono separato. Sono ancora nel processo.
Che vita avrà questo disco? Ci puoi dire i progetti futuri?
Non ci sono feat perché volevo il mio primo disco da solo, in più è un disco molto personale. Faremo il tour dopo. È il primo progetto con cui sto cercando di crearmi il mio posto vero e proprio nel mondo della musica. Una volta che dai il tuo disco agli altri, il resto lo decidono loro. Ma io sono contento di aver messo qualcosa di vero nel disco con mio fratello. Il 24 maggio facciamo la prima data del tour al MI AMI Festival. Sono gasato perché è il primo live dell’album e abbiamo fatto un upgrade di tutta la parte live, e ho provato a fare un upgrade anche mio personale.
E com’è la trasformazione di Marco sul palco?
Sul palco mi sento libero di far uscire quel lato più punk, che nella vita non ho, perché sono una persona molto pacata. Lì mi mollo completamente, mi piace fare i live molto carnali. Non sono temprato fisicamente, infatti mi viene sempre da svenire alla fine dei live. Devo fare un po’ di esercizio.