– di Lucia Tamburello –
Al Locomotiv di Bologna c’è mai stato così caldo, e non per l’aria di primavera che ha travolto improvvisamente la città, ma per il calore che solo il rock più atavico e sincero riesce a regalare. Sabato, dopo l’introduzione di Her Skin, gli Elephant Brain hanno riportato sul palco la vera essenza del genere presentando per l’ennesima volta un progetto artistico e di vita costretto ad essere alternativo per la propria identità e non per motivi estetici o commerciali. Per un paio d’ore circa, hanno creato per i propri fan un rifugio, fisico e sentimentale, «fuori dai posti che sembrano vuoti di teste» [da Restiamo quando ve ne andate, ndr]. Se sulle piattaforme digitali tutti gli artisti si proclamano fuori dal coro, è il live il vero spartiacque tra l’underground che mostra “i propri punti deboli”, ciò che effettivamente lo distacca e lo emancipa dai dogmi artistici ed esistenziali, e il resto. Ai concerti del gruppo perugino le chitarre distorte tornano a rappresentare una subcultura, musica per e da sfigati non in linea con il resto del mondo, musica per chi non può fare a meno di suonare e di sentire suonare: per chi deve chiedere le ferie al proprio capo per partire in tour, insomma.
Neanche una scaletta altalenante, probabilmente scelta appositamente per dare un certo dinamismo alla serata, è riuscita ad infierire su quel particolare stato d’animo collettivo. L’accostamento di atmosfere diverse, effettivamente, ha reso lo spettacolo ancora più vivace e l’entusiasmo dato dalla violenza dei primi brani è stata ripresa anche in chiusura, ma gli “intervalli” dati da blocchi di pezzi più lenti hanno rischiato di stroncare l’energia del pubblico. Anche il “momento anarchico”, che sfoggia le migliori hit nazionali, poteva essere posizionato meglio. La scelta della struttura del concerto è stata sicuramente azzardata, ma non del tutto infelice.
Nonostante, nella discografia degli Elephant Brain, ci siano alcuni pezzi che hanno avuto un gran successo in termini di ascolti rispetto ad altri, tutti hanno avuto un riscontro “democratico”, costantemente positivo. Band e pubblico si sono fatti una cosa sola per mostrare una devozione religiosa alla piena libertà espressiva, al punto di riferimento per non perdere «l’unica cosa che conta davvero» [da L’unica cosa che conta davvero per me, ndr]: se stessi, le proprie idee ed emozioni.